Barbone: «Sono un assassino, ma non falso pentito» di P. Cor.
Barbone: «Sono un assassino, ma non falso pentito» Barbone: «Sono un assassino, ma non falso pentito» Chiesto Usuo rinvio a giudizio anche per l'omicidio del brigadiere Custrà Marco Barbone MILANO. «Qualcuno vuole tenere in vita artificialmente una storia che è finita e chiarita per sempre. Questo mi spaventa». Parla Marco Barbone, l'omicida di Walter Tobagi, il grande pentito, che la sezione provvedimenti speciali della Corte d'Appello di Milano ha appena rinviato a giudizio per il tentativo di sequestro del giornalista del «Corriere» nel gennaio '78, due anni e mezzo prima dell'omicidio. Reato archiviato dai due giudici Grigo e Salvini con successiva impugnazione, novembre 1985, di Ulderico Tobagi, padre della vittima. E' la prima volta, in dieci anni, che Barbone incontra i giornalisti. Perché? «Per smentire le menzogne che sono tornate a circolare». Calmo, ingrassato, giacca verde e fede al dito, Barbone arriva a Palazzo di Giustizia in compagnia dell'avvocato Marcello Gentili. Toccherà a lui chiarire il motivo dell'intervista: «L'ordi¬ nanza mette in dubbio il completo pentimento del mio assistito. Questo è un assurdo». Nella sentenza firmata da Piero Dini si dice che Barbone nascose il nome di Caterina Rosenzweig, all'epoca la sua fidanzata, tra i partecipanti del tentativo di sequestro. «La legge sui pentiti dice Gentili - non impone a chi confessa l'obbligo di fare l'elenco completo dei responsabili». Nelle sue deposizioni Barbone ha fatto almeno 300 nomi ma non quello della Rosenzweig, indicato dall'infiltrato Rocco Ricciardi. Si è limitato a confermarlo due mesi fa. Come mai? «Fino allo scorso aprile non sono mai più stato interrogato su quel fatto specifico». Insiste Barbone: «Il tentativo di sequestro, l'ho confessato spontaneamente nell'interrogatorio del 9 ottobre 1980. Gli inquirenti lo ignoravano». Lei ha detto che «qualcuno» vuole tenere in vita artificialmente la vicenda Tobagi. Chi? «E' evidente». I socialisti? «Direi proprio di sì». Il motivo? «Sono convinti che dietro al nostro gesto ci siano dei mandanti rimasti nell'ombra. Mandanti dentro al "Corriere" o al sindacato giornalisti, avversari di Tobagi. Se noi fossimo stati solo degli utili idioti armati dà qualcun altro, avremmo tutto l'interesse a confessarlo. Purtroppo non è così». Questo dubbio alimentato dalle ricorrenti polemiche, la infastidisce? «Mi addolora. L'unica cosa che ho fattoa fin di bene nella mia vita è stata quella di dire tutta la verità». Perché prima ha detto che si sente spaventato? «Ho l'impressione di essere usato per giochi più grandi di me». I punti che restano al centro delle polemiche sono il volantino di rivendicazione dell'omicidio e le macchine per scrivere usate. «E' già tutto detto e nelle deposizioni. Il volantinò lo abbiamo scritto io e Daniele Laus». E le macchine per scrivere che Franco Di Bella cercava nelle redazioni del gruppo Rizzoli? «Le abbiamo comprate, usate e gettate nel Naviglio». Non sono mai state ritrovate? «Purtroppo no». Ha mai cercato di incontrare la famiglia Tobagi? «No. Rispetto il loro dolore». Parlando dei famigliari, la calma di Marco Barbone si melina. Oggi ha 31 anni, quando decise di sparare a Tobagi solo 21. Dice: «Chiamatemi sciagurato, assassino. Sono pronto ad accettarlo. Ma non dite che sono un falso pentito. Su quelle confessioni, ho trovato una minuscola ragione per rifarmi una vita». La sua vita: il lavoro in una tipografia milanese, la moglie sposata nell'86, due figlie di tre anni e diciotto mesi: «Ogni volta che guardo le mie bambine ripenso ai due figli di Tobagi cresciuti senza padre». Intanto è stato annunciato che per Marco Barbone è stato chiesto il rinviato a giudizio per l'omicidio del brigadiere Custrà. [p. cor.]
Luoghi citati: Milano
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