«Non lasciate Napoli, salvatela» di Domenico ReaFulvio Milone

«Non lasciate Napoli, salvatela» Parlano Compagnone, Ramondino e Rosi. Ma Domenico Rea: «Se potessi fuggirei da questa trappola» «Non lasciate Napoli, salvatela» L'appello del sacerdote divide la città NAPOLI. Sarà stata la reazione emotiva di un uomo sconvolto per l'omicidio di un bambino di diciannove mesi. Di certo il grido di dolore lanciato durante i funerali del piccolo Nunzio Pandolfi da don Franco Rapullino, parroco della chiesa .di Santa Maria della Pace, ha avuto l'effetto di una scudisciata sulla pelle di una città colta alla sprovvista. «Fujtevenne da Napoli, perché ogni misura è stata colmata», aveva tuonato il prete durante l'omelia, dopo essersi rifiutato di celebrare l'eucarestia. E ai fedeli aveva parlato della camorra come di «un mostro che si è impossessato del quartiere abbandonato dallo Stato, ma anche dei nostri cervelli, impedendoci di pensare». Il giorno dopo l'invocazione di un uomo di chiesa, la città si chiede se davvero «ogni speranza di riscatto è andata perduta», come dice il parroco. E appare divisa, quando tenta di interpretare il clamoroso appello alla fuga lanciato da un uomo su un altare: una frase che sa tanto di provocazione, diretta alle «coscienze troppo a lungo assopite» e alle istituzioni «colpevoli per la loro assenza». «Mi duole dirlo, ma quel prete ha ragione: Napoli è proprio morta». Rintanato in un bell'appartamento sulla collina di Posillipo, lo scrittore Domenico Rea lancia un anatema contro la sua città. «Se non avessi set- tant'anni - aggiunge - me ne andrei senza un attimo di esitazione». Le parole di un intellettuale disilluso, e amareggiato assumono improvvisamente un tono rabbioso: «Vivo in questa casa come in una trappola. Ho paura di uscire non tanto per la delinquenza che pure ci assedia, quanto per il degrado civile e morale al quale sono costretto ad assistere. Sì, don Franco ha ragione: non c'è più speranza in questo lembo di terra che non sembra appartenere all'Italia né all'Europa. Le istituzioni locali? Inerti, incapaci di affrontare il rinnovamento». «Fujtevenne da Napoli»: don Franco Rapullino ha fatto sua una frase pronuciata da Eduardo De Filippo pochi anni prima della morte. Cos'era, quella del grande attore e scrittore napoletano: la dichiarazione di resa di un uomo di cultura nei confronti di una realtà immodificabile nel tempo? O una provocazione rivolta alla parte sana della città, ad un'intellighenzia la cui voce è rimasta troppo spesso inascoltata? Il regista Franco Rosi è uno dei tanti intellettuali partenopei che all'inizio della carriera scelsero la via dell'emigrazione. Eppure il suo legame con la città rimane strettissimo. «Io credo che l'invito di Eduardo fosse rivolto a tutti quegli artisti che, vivendo a Napoli, non avevano alcuna prospettiva di lavoro». Attento alla cronaca che ha sempre ispirato i suoi film, Rosi nota subito una contraddizione nella denuncia di don Franco Rapullino. «Da una parte c'è l'immagine positiva di un prete che, come altri uomini di chiesa in questi ultimi tempi, grida contro gli orrori della mafia e della camorra. I sacerdoti come lui sono diventati un punto di riferimento. Ma alla fine dell'omelia il parroco invita alla fuga, mentre la logica conclusione del suo discorso dovrebbe essere un appello agli uomini di buona volontà per cercare insieme nuovi strumenti di lotta contro la malavita. E' un atteggiamento che non capisco». Anche lo scrittore Luigi Compagnone reagisce con scetticismo all'invocazione del parroco della chiesa di Santa Maria della Pace. «Fujtevenne: questa parola lasciamola a Eduardo. Lui si poteva permettere di lasciare Napoli. Ma dove potrebbe mai andare un poveraccio che abita nel rione di Forcella? Al Nord, dove verrebbe subito etichettato come delinquente e rifiutato dalla comunità? No: l'invito alla fuga serve solo a peggiorare le cose. Capisco la disperazione di quel prete: se fossi un credente, direi anch'io che i napoletani sono vicini al castigo di Dio. Ma se conoscessi il parroco gli direi di riflettere, perché i problemi della città possono essere risolti solo qui». La scrittrice Fabrizia Ramondino abita in via Tribunali, a pochi passi dalla chiesa di don Franco. La violenza è sotto i suoi occhi, in una strada dove camminare la sera può costare caro. Anche la vita. «Il parroco ha ragione quando denuncia la latitanza dello Stato: un'assenza colpevole, gravissima. Qui non ci sono biblioteche, l'evasione della scuola dell'obbligo tocca percentuali altissime, l'unico sbocco per i giovani che vogliono mantenersi onesti è il lavoro nero. Quel sacerdote non sbaglia neanche quando dice che la prevaricazione e l'arro- ganza sono diventate modelli di vita per troppa gente: io stessa devo adattarmi a questa situazione, se non voglio isolarmi. Nonostante ciò, non credo che tutta la città sia ridotta in queste condizioni. E anche se lo fosse, sarebbe un motivo in più per rimanere e combattere». Rimanere e lottare, come dicono Rosi, Compagnone e Ramondino, oppure fuggire come sostiene Domenico Rea? Un altro prete napoletano, Samuele Ciambriello, ha optato per la prima soluzione: si è candidato come indipendente nelle liste del pei alle ultime elezioni, ed è stato eletto nel Oc. "iglio regionale con oltre 40 mila preferen¬ ze. Anche se l'attività politica gli è costata una sospensione a divinis decretata dalla Curia, il «prete rosso», come lo chiamano a Napoli, non si è pentito. «Capisco don Franco Rapullino. Con quelle frasi gridate dall'altare voleva attirare l'attenzio-. ne su un problema reale e drammatico come quello della criminalità e del degrado urbano. La verità è che Napoli è come Beirut: una città devastata da una guerra lunga, estenuante. Qui troppe coscienze sono assopite. Don Franco ha tentato di risvegliarle, e molti non glielo perdoneranno mai». Fulvio Milone Ai funerali del bambino ucciso, don Franco Rapullino ha detto: fuggite da Napoli