Condannati per sette omicidi: in libertà
Condannati per sette omicidi: in libertà Torino, scaduti i termini di carcerazione preventiva mentre non si è ancora concluso il processo d'appello Condannati per sette omicidi: in libertà A casa capi e killer del clan dei catanesi, avevano l'ergastolo TORINO. Il clan dei catanesi torna a casa. Killer e capi dell'organizzazione che per un decennio ha terrorizzato Torino lasciano le celle. Ieri il presidente della Corte d'assise d'appello Guido Barbaro ha dovuto prendere atto dell'impotenza dello Stato a far fronte alla malavita organizzata. Sono ben ventuno gli imputati rimessi in libertà per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva: tutti condannati all'ergastolo. Di questi però soltanto sci potranno lasciare le Vallette con certezza. Gli altri resteranno a scontare pene per altri conti in sospeso con la giustizia. Tornano a casa personaggi del calibro di Placido Barresi, Salvatore Boncore, Carmelo Caldariera, Giovanni D'Antone, Giuseppe Pavone e Mario Stramondo, condannato per sette omicidi. E sono in libertà anche i pentiti che però da tempo si trovavano agli arresti domiciliari. La loro posizione non cambia molto, qualcuno sostiene che potrebbe addirittura peggiorare: con tanti «nemici» di nuovo in giro, per Parisi e compagni potrebbero essere giorni neri. L'ordinanza de\ presidente della seconda assise Barbaro non arriva inattesa. Si sapeva benissimo che la legge concede un anno e mezzo di tempo tra il processo di primo e quello di secondo grado. Se in questo tempo non si riesce a celebrare il dibattimento l'imputato ha diritto ad uscire. Commenta il senatore Marcello Gallo, uno dei padri del nuovo codice: «E' una norma garantista che vuole evitare le lunghe carcerazioni preventive. Non dimentichiamo che la custodia cautelare permessa in Italia è la più lunga in tutta Europa. Persino rispetto ai Paesi dell'Est siamo più restrittivi in questa materia. La norma vuole essere un pungolo perché i magistrati accelerino i tempi dei procedimenti». Altri avvocati come Lo Greco, Siliquini, Foti, Perga aggiungono. «Ora si griderà ancora allo scandalo. Si scriverà che i boss tornano in libertà. Ma nessuno si pone la domanda più scottante: queste persone sono in carcere da sei anni. La giustizia in tutto questo tempo non è riuscita a mettere la parola fine alla loro vicenda giudiziaria. Dovrebbero continuare a rimanere in cella? A nessuno viene il dubbio che qualcuno potrebbe essere anche innocente». Aggiunge Lo Greco: «Il mio assistito Giuseppe Garozzo è tra quelli che avrebbe potuto uscire il prossimo 28 maggio come disposto dal presidente Barbaro. Non torna in libertà per un precedente furto. Garozzo è indicato dai pentiti come l'ultimo capo del clan. Gli avevano attribuito cinque delitti. In primo grado alle Vallette nel novembre '88 venne scagionato da quattro omicidi. Gli venne inflitto l'ergastolo per l'assassino di una persona di cui non si è mai trovato il cadavere. E' in carcere dal novembre '83: quanto dovrebbe aspettare ancora in galera per sapere se è veramente colpevole o innocente?». E' il prezzo che si paga per il maxiprocesso, per aver voluto, non solo a Torino, mettere in piedi questi giudizi-monstre che potevano forse colpire la fantasia del pubblico ma non certo rendere giustizia. Nessuno poteva sperare ragionevolmente di poter concludere un giudizio come quello delle Vallette nei tempi previsti dalla custodia cautelare. E, mai come in questo caso, i giudici si sono impegnati allo spasimo. Tutti ricordano la corte presieduta da Elvio Fassone che nella primavera '87 iniziò il processo di primo grado alle Vallette contro il clan dei catanesi. Fassone e il collega Cesare Castellani non persero un giorno d'udienza, lavorarono per mesi anche al pomeriggio: un impegno massacrante, ma che nulla poteva contro qualcosa che era troppo più grande. I 27 ergastoli comminati nel novembre '88 era il numero più alto di condanne a vita mai comminate. Ma si sapeva fin da allora che mai si sarebbe riusciti a concludere il giudizio di secondo grado in tempo. Il presidente Barbaro ha iniziato l'appello a marzo, non riuscirà a chiuderlo prima di ottobre-novembre. Non è certo colpa sua se quando emetterà la sentenza si troverà davanti una serie di gabbie vuote: la colpa più grande è di chi ha voluto i maxiprocessi, per fortuna espulsi con ignominia ora dal nuovo codice di procedura penale. E oggi inizia a Milano il giudizio per l'omicidio del procuratore Bruno Caccia: unico condannato all'ergastolo in primo grado per quel delitto è Domenico Belfiore, uno degli imputati del maxiprocesso al clan dei catanesi. Nino Pietropinto
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