Il «lucido suicidio» di Sofri di Lorenzo Del Boca

Il «lucido suicidio» di SofriUna difficile decisione dopo la sentenza: subito in carcere oppure l'attesa del processo d'appello Il «lucido suicidio» di Sofri Ironia e aggressività nel suo memoriale MILANO DAL NOSTRO INVIATO Il destino di Adriano Sofri è appeso a un cavillo di burocrazia. In galera? Non essendo stata firmata la domanda per l'appello, la sentenza che lo condanna al carcere è definitiva. Alla Procura di Milano l'ufficio esecuzioni è diretto da tre magistrati - Filippo Grisolìa, Nunzia Gatto e Sandro Raimondi - che già oggi dovrebbero decidere cosa fare. Questione niente affatto semplice. Perché non c'è un precedente cui riferirsi e per le conseguenze politiche che qualunque valutazione si tira dietro. Ferdinando Pomano, pubblico ministero al processo di Adriano Sofri e compagni, faceva parte dell'ufficio esecuzioni fino all'anno scorso. E questo magistrato che, in aula, ha rappresentato l'accusa senza tentennamenti e, qualche volta, con impeto dice chiaro e tondo: «Sono contento di non dover decidere questa vicenda». I giudici, stabilendo che la sentenza è esecutiva, possono farla eseguire. In questo caso l'unico vantaggio per Sofri è l'arretrato che pesa sull'ufficio che. pur facendo in fretta, lo manderebbe in galera tardi. Oppure scelgono di aspettare il processo di secondo grado. Giorgio Pietrostef ani e Ovidio Bompressi, condannati come lui e con posizioni giudiziarie simili alle sue, si sono appellati. Una seconda setenza diversa dalla prima non potrebbe non riguardare anche Adriano Sofri. Oppure, terza possibilità, la sentenza l'impugna il Procuratore Generale Adolfo Bona d'Argentine: c'è un mese per farlo. Ma perché non presentare appello? Perché rifiutare la firma a tre righe dattiloscritte che avrebbero spazzato ogni imbarazzo di procedura? Perché il processo, la sentenza e, in generale, tutta la storia mettono in discussione l'Adriano Sofri - versione Anni SessantaSettanta - come nessun riflusso o disimpegno sociale era stato in grado di fare «Ne va della mia vita». Lo ha scritto nel memoria le per i giudici che entravano in camera di consiglio «Non dirò della mia vita futura ma. piuttosto, della mia vita passata, più cara e vulnerabile». Lo stesso canovaccio di un suo articolo su Panorama pubblicato prima del processo, in tempi non sospetti: non siamo quelli di prima ma non c'è né da pentirsi né da vergognarsi Per questa vicenda. «Sono innocente ma battendomi per dimostrarlo mi sono trovato di fronte alla contraffazione del mio modo di essere. Mi sono sforzato di dimostrare che non ho ordito l'omicidio Calabresi, non ho mandato Marino, non ho avuto con lui il colloquio del quale mi accusa. A ogni passo ho dovuto gridare "non sono questo". Non dovevo difendere me come sono oggi con i miei pensieri arrotondati e la mia scarsa combattività, le mie buone maniere e i miei vecchi libri bensì come ero, con pensieri affilati, maniere intemperanti e case di passaggio. Sarei stato tentato di assomigliare, fuori tempo, a quel me che ero, nello sforzo generoso e necessario di difenderlo. Oppure rinnegarlo, perdendo il fondamento stesso dell'esistenza mia e di ciascuno che è di tenere a distanza di rispetto ma affettuosa il passalo». Un crinale sottilissimo e, quindi, pericoloso «Questa storia è anche un cattivo romanzo. Come spesso la vita. E, come il resto della vita, potrà essere riscattata soltanto da un buon romanzo». La battaglia giudiziaria di Sofri: «Ho dovuto lottare per non essere condannato e per non essere infamato». Ha usato i mezzi tecnici per smontare il puzzle delle accuse: la telefonata a Marino; la pioggia, a Massa, durante il comizio; le strade di Milano; i rapporti personali; la costruzione illogica di un delitto che avrebbe dovuto essere un esempio di logica. Ma, nello sforzo di restare legato alla razionalità del ragionamento, non ha resistito al richiamo della satira. Adriano Sofri è un uomo che ha letto Marx dopo aver conosciuto i classici latini e greci: un tribuno che ha fatto poco ricorso alla demagogia spiccia di chi deve incantare Te platee. «Il diavolo fa le pentole ma non i dettagli». Hanno paragonato Leonardo Marino all'Innominato dei Promessi Sposi: «e, allora, il capitano dei carabinieri Meo è il cardinal Borromeo...». Un'ironia per tutti. L'avvocato di parte civile? «Nostra valorosa accusa privata». E l'avvocato Ascari? «Rinnegando la propria proverbiosa saggezza, si impegna a confutare la pioggia». Forse un po' pretenzioso. Persino saccente. Come in un lucido suicidio ha finito per indispettire la Corte che si ritirava per giudicarlo. Rivendicativo: «Ho auspicato che non si leggessero le parole dell'altroieri con gli occhiali di ieri». Invece: «letture disinvoltamente retroattive» tanto da farne venir fuori «una rozza deformazione del testo e una sicumera di interpretazione». Dice di essere rimasto «sbalordito e amareggiato, in istruttoria, da una conduzione che mi appariva pregiudizialmente chiusa alla verifica dei fatti». Con il pubblico ministero che «con sprezzo del ridicolo, interloquisce». Ancora: «Non mi pare buon segno, per l'accusa, essere ricorsa alle sensazioni di pelle, l'evocazione di scenari in cui tutti, anche i rudi militari dell'Arma, si mettono a piangere». Dunque: «Gesti e toni poco prossimi a un civile processo. Lacrime e sudori, anatemi e furori, viscere e maniche corte hanno spodestato il confronto dei fatti e delle prove, delle cose mostrate e delle cose accertate come false». Efficace ma poco diplomatico. Perlomeno impopolare. Lorenzo Del Boca Leonardo Marino Il pm Ferdinando Pomarici Adriano Sofri

Luoghi citati: Marino, Milano