CAMERA LE NUOVE REGOLE di Andrea Manzella
CAMERA LE NUOVE REGOLE CAMERA LE NUOVE REGOLE che due sole armi, provvidenziali risorse della Costituzione e della consuetudine costituzionale: i decreti-legge e il ricorso alla «questione di fiducia». Demonizzate dalle opposizioni (ma anche oggetto, talora, di uso improprio e reiterato) queste due classiche procedure hanno in effetti preservato un minimo di governabilità. Chi volesse ricostruire la vera fisionomia legislativa dei 47 governi succedutisi da allora, dovrebbe farne la storia dei decreti-legge e delle «posizioni di fiducia». (Non a caso, gli ultimi scontri di retroguardia, in nome della vecchia logica antigovernativa, sono oggi ancora impegnati su questi due istituti). La lunga marcia di cambiamento per arrivare ad oggi cominciò vent'anni fa, con fasi diverse fra Camera e Senato, ma con tre direzioni comuni. Da un lato, l'introduzione del concetto di programmazione dei lavori parlamentari e la graduale crescita in essa dei poteri del governo. Dall'altro, lo spostamento delle garanzie delle opposizioni da poteri negativi di veto e di ostruzionismo a poteri attivi: di controllo, di informazione e di controprogramma. Infine, la attribuzione ai presidenti delle Camere di fortissimi poteri di ultima istanza (nel 1971 si comincia con l'abolizione del degradante appello di maggioranza contro le loro decisioni). Lungo queste linee, passi in avanti importanti furono possibili solo dopo la stagione della «solidarietà nazionale»: gli anni 1976-1979 che videro il pei superare le crisi di legittimità che, in politica estera ed interna, lo facevano ancora «estraneo» al sistema. Vi furono infatti graduali mosse concordate, tra la maggioranza e la più forte opposizione: la disciplina dei tempi dei dibattiti; le «sessioni» specializzate per il bilancio e la legge finanziaria; i poteri di calendario affidati al Presidente in caso di disaccordo fra i gruppi. Nel 1988, invece, la grande svolta per l'«abolizione» del voto segreto richiese una battaglia: condotta assieme da De Mita e Craxi, rischiando ad ogni momento la crisi di governo. Oggi, la conclusione, anche questa concordata. Con le norme odierne scompare, alla Camera, un mito secolare del parlamentarismo: «L'Assemblea è padrona del proprio ordine del giorno». Ora è il governo, invece, che detta l'ordine di priorità per i lavori. L'Assemblea non può minimamente cambiarlo. Deve affidarsi alla garanzia del suo Presidente cui spetta anche il compito di assicurare nel programma una riserva di tempo per le proposte dell'opposizione. Poi, tempi «certi» per le discussioni, ripartiti tra i gruppi. C'è dunque, in Parlamento, un nuovo status del governo ed un nuovo status dell'opposizione. Si chiude nei suoi vecchi termini la questione sul «governo in Parlamento»; rimane tutta intera quella sul funzionamento interno del governo e sulla sua leadership. Andrea Manzella
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