Tokyo chiede aiuto ai Sette di Fernando Mezzetti

Tokyo chiede aiuto ai Sette A colloquio sulla crisi giapponese con Tomomitsu Oba, uno dei protagonisti dell'«accordo del Plaza» Tokyo chiede aiuto ai Sette «Parliamo di monete, non solo dell'Est» TOKYO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE «La nostra economia va bene, ma il mercato sente che essa ha toccato il suo vertice. Questo, insieme ad altre ragioni tecniche, può contribuire a spiegare l'indebolimento dello yen. Il che però non ci preoccupa perché le prospettive restano positive». Tomomitsu Oba, presidente d'uno dei più importanti istituti di ricerca economica, consulente istituzionale del ministro delle Finanze, parla con distacco della discesa dello yen, anche se, come artefice a suo tempo della sua spettacolare ascesa, sente che è la fine di un ciclo. Non solo per la moneta del suo Paese, ma per un certo coordinamento monetario internazionale che nessuno pensa sarà rivivificato a Parigi il 7 aprile nell'incontro del Gruppo dei Sette. Anzi, proprio ieri Tokyo ha chiesto aiuto a Parigi chiedendo che la crisi che ha investito Borsa e yen abbia uno spazio rilevante (e non marginale) nell'agenda dei Sette. Oba è stato il protagonista degli accordi del Plaza nel settembre 1985. Proveniente dalla grande burocrazia, era a quell'epoca vice ministro tecnico delle Finanze. In due incontri segreti a Parigi e alle Hawaii con l'allora assistente americano al Tesoro, Mulphord, mise a punto la strategia che avrebbe dovuto ridare respiro agli Stati Uniti facendo diminuire, con la crescita dello yen, il loro deficit verso il Giappone. Ma se gli indicatori dell'economia restano positivi, come mai la moneta si indebolisce? Il mercato legge diversamente le cifre. Il nostro tasso di sviluppo sarà di oltre il 4 per cento, ma l'anno scorso è stato sul cinque per cento. Quello degli Stati Uniti sarà il doppio del previsto, arrivando al 2 per cento. Il surplus della nostra bilancia delle partite correnti è sceso di 79 a 57 miliardi di dollari, e calerà quest'anno all'I per cento del prodotto nazionale lordo, contro il 2 per cento a cui eravamo due anni fa. Il deficit degli Stati Uniti si è ridotto da 140 a a 120 miliardi di dollari. Rimane deficit, ma ridotto. Il nostro rimane surplus, ma si contrae. Questa è la lettura che fa il mercato. Sbaglia? Non spetta a me dare giudizi, ma la percezione è questa. E d'altra parte il nostro tasso di sviluppo ha raggiunto il picco. Resterà alto, ma con un leggero declino. Mentre parliamo si è sgretolato insieme con lo yen un altro dei primati nazionali. Dall'altro giorno il Giappone ha perso il primo posto che aveva da tre anni come riserve valutarie. Dissanguatosi per cercare di frenare la caduta della yen, viene dopo gli Usa, dividendo con Taiwan il secondo posto con 73 miliardi di dollari. Il ministro delle Finanze ha avuto a Los Angeles un incontro d'urgenza col segretario al Tesoro da cui non è uscita una linea comune per il sostegno dello yen. La cooperazione è finita? Ho incontrato il vicepresidente del Fed e quello della Bundesbank. Ho verificato uno strano consenso: ognuno vuole forte la propria moneta. E' una lotta triplice, una strana finale a tre in cui per ora lo yen soccombe, essendo il marco favorito dall'unificazione. Però il dollaro rafforzandosi sullo yen si indebolisce sulle monete europee. E Washington è preoccupata di questo, non dello yen. Al Plaza, noi e Bonn ci impegnammo a espandere la domanda interna e ridurre i surplus, gli Stati Uniti a ridurre il deficit federale. Noi abbiamo rispettato gli impegni, gli Stati Uniti no. Diplomatico, Oba non vuol polemizzare. Gli ambienti finanziari nulla si attendono dal «G7». E' forte la percezione che l'attenzione generale si è spostata sull'Europa. Ma Masaru Yoshitomi, dell'agenzia di pianificazione economica governativa, dichiara: «L'epoca del Plaza e- dello yen forte è finita. Ma uno yen debole non bloccherà la nostra crescita». Fernando Mezzetti

Persone citate: Masaru Yoshitomi, Tomomitsu, Tomomitsu Oba