Edith Bruck: «Ci vorrebbe una via Anna Frank anche a Berlino »

Edith Bruck: «Ci vorrebbe una via Anna Frank anche a Berlino » Edith Bruck: «Ci vorrebbe una via Anna Frank anche a Berlino » Incontro con la scrittrice, mentre a Torino si ricordano «i bambini nei Lager» GGI è morta la mia gatta. Non sono riuscita a decidere di eliminarla, anche se da tempo era malata e soffriva. Perché lottava per la propria sopravvivenza e io non avevo il diritto di interferire. Ogni cosa che capita nella mia vita mi riporta ad Auschwitz e questa è un'esperienza che non si cancella. Forse può sembrare paradossale, ma questa diversità oggi la considero un privilegio: rende i sopravvissuti i guardiani della memoria dell'umanità». Quella di Edith Bruck è una voce stanca, ma dolce e piena. La scrittrice, nata in Ungheria 58 anni fa da una famiglia ebrea, vive a Roma dal 1954 e in italiano ha pubblicato tutti i suoi lavori. L'ultimo, Lettera alla madre (Garzanti), è ancora un racconto di guerra, una resa dei conti spietata con i propri fantasmi, la storia, Auschwitz. Nel 1944 la famiglia Bruck fu deportata nei Lager nazisti. «I tedeschi arrivarono a casa nostra alle cinque del mattino. Ci buttarono fuori a calci e ci portarono via. Mio fratello (15 anni), fu ucciso appena giunti nel campo di concentramento. La stessa sorte toccò a mia madre. Mio padre morì di stenti il 6 marzo del '45. Due giorni dopo, il campo fu liberato». Edith aveva 12 anni. E' una delle poche bambine sopravvissute all'orrore. Edith Bruck sarebbe dovuta intervenire oggi alla tavola rotonda di Palazzo Lascaris a Torino, proprio sul tema: «Bambini e adolescenti nei campi di concentramento», in concomitanza con la mostra «Anne Frank nel mondo» (fino al 20 marzo all'Istituto Gobetti e Arduino in via Figlie dei Militari 25). Ma per impegni dell'ultima ora non è riuscita a partire. Sta lavorando a due puntate di una trasmissione tv: La mia guerra. Una ha per tema la fame, la seconda i rapporti tra ebrei e cristiani. «Quello che mi ha colpito molto, raccogliendo le testimonianze della gente, è che gli ebrei ancora oggi sono molto restii a parlare della deportazione. Ho l'impressione che non vogliano disturbare la coscienza. Per me questa reticenza è stata un'esperienza dolorosa: dimenticare né si deve, né si può». All'attività di scrittrice, Edith Bruch ha affiancato quella cinematografica, dirigendo i film Improvviso, Quale Sardegna, Un altare per la madre, dal romanzo di Camon. Ha lavorato per un anno su di un soggetto che, nella trasposizione cinematografica, doveva essere interpretato da Vanessa Redgrave e Franco Nero. «Ma il film non si fa perché il coproduttore americano adesso si è tirato indietro, con la motivazione che "la Redgrave è filopalestinese". Non ho voluto cambiare protngonista perché Vanessa era giusta per quella parte ed anche per solidarietà. Era la storia di una donna deportata da bambina nei Lager. Emigrata in America cambia nome, diventa una grande attrice e rinnega il suo passato. Un giorno, per rilanciare la sua immagine, cinicamente lo usa e, in questo modo, torna a testimoniare». La testimonianza, nella vita e nell'opera di Edith Bruck, è qualcosa di fondamentale: perché i campi di sterminio non furono una conseguenza della follia di Hitler, né sono responsabili soltanto i tedeschi di quanto è accaduto. «Tutti sapevano cosa succedeva, tuttavia l'hanno permesso. Auschwitz è nato nell'Occidente civilizzato, i Lager erano nel cuore dell'Europa. Ma oggi tutto questo viene mistificato, respinto e l'ignoranza dei giovani sulla storia, sui Lager, sulle deportazioni, è agghiacciante, mostruosa. Mi fa paura. Né la cultura, né la teologia cristiana, né la storia, né la Germania, nessuno ha affrontato Auschwitz perché è difficile fare i conti con Auschwitz». E della Germania di oggi che pensa? «Che fa paura. Non per me, non per i sopravvissuti. Tanto peggio di così non poteva andarci; ho paura per il futuro». Perché? «Perché la Germania fino al '58 ha messo al bando qualsiasi informazione sulla sua storia; per esempio era vietato parlare della deportazione nelle scuole. I tedeschi hanno cominciato a confrontarsi con la loro storia solo negli Anni 60 e innanzitutto attraverso il cinema. Un Paese che rimuove il proprio passato e lo affronta così tardi, è un Paese pericoloso. I tedeschi vogliono riscattarsi, ripulirsi, rinascere, riconquistare una dignità e seppellire definitivamente qualcosa con cui non si sono mai confrontati, né a livello collettivo, né a livello individuale. Forse ima futura Germania uni¬ ta non costituisce effetivamente una minaccia, però abbiamo delle paure ancestrali e il ricordo è troppo vivo per non aver paura». Continua: «I giovani poi non sanno niente della loro storia e molti non vogliono sapere. Non parliamo della Repubblica democratica tedesca, dove dal nazismo sono passati allo stalinismo che ha stroncato qualsiasi spunto di riflessione. Nella Ddr il passato è ancora più tabù che nella Repubblica Federale; lì il popolo non si è mai confrontato con la propria storia». Secondo Edith Bruck, «è la mentalità difficile da cambiare. Non si diventa democratici dall'oggi al domani semplicemente dicendo: adesso siamo democratici. Mi ha impressionata molto la diligenza dei Vopo nel colpire il Muro di Berlino col calcio del fucile, la stessa diligenza con la quale, qualche mese prima, sparavano ai loro connazionali fuggiaschi...». Che cosa pensa del ruolo assunto dagli intellettuali, dagli scrittori in particolare, nella svolta dei Paesi dell'Est? «E' molto importante, ma gli scrittori non sono dei politici. Politica e poesia sono cose diverse, stanno in domini separati. I poeti possono essere il motore del cambiamento, devono rappresentare la coscienza critica. Perciò sono importanti in questo momento, ma in seguito credo che debbano abbandonare il potere». Quale funzione spetta oggi alla scrittura, alla poesia? «Devono rispecchiare la realtà sociale, farsi testimonianza del vissuto». Il 2 aprile a Bologna sarà inaugurata la prima strada italiana dedicata a Primo Levi. «Quando la gente passerà, forse si chiederà chi era e ricorderà. Ci vorrebbero cento, mille vie Primo Levi, Anna Frank in tutto il mondo». Paola Campana