Giovanni Pirelli,lettere da un mondo che crolla

Giovanni Pirelli, lettere da un mondo che crolla Pubblicato l'epistolario con i familiari: 1938-1943 Giovanni Pirelli, lettere da un mondo che crolla ESILE, slanciato, il naso sottile incorniciato da un viso magro, finissimo sotto i capelli appena ric_—I ciuti, in cui spiccano occhi dolci, illuminati dalla luce dell'intelligenza. Così Giovanni Pirelli rimbalza dalle foto che corredano il suo epistolario di guerra {Un mondo che crolla. Lettere, 1938-1943, pp. 1-382), appena pubblicato da Rosellina Archinto a cura di Nicola Tranfaglia. Nelle «pose» che lo ritraggono alpino ventenne, Giovanni rifiuta di atteggiare il suo volto ai tratti imperiosi del futuro «capitano d'industria» quasi presagendo un destino diverso. Giovane rampollo di una delle più prestigiose e solide dinastie industriali, avrebbe consumato nei confronti della sua classe d'origine un «tradimento» radicale. Entrato nell'azienda paterna nel 1946, a ventotto anni, ne uscì dopo poco più di un anno per dedicarsi prima alla ricerca storica, poi alla «militanza» nella cultura di sinistra (si era iscritto al psi nel 1946). Fu giornalista dell'Avariti/, curò la raccolta delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana (1952), oltre a libri per ragazzi: Storia della balena Jona e altri racconti, 1962. Un impegno inesauribile Il suo fu un impegno inesauribile, fitto di iniziative intellettuali che spaziavano dalle canzoni popolari alla collaborazione con Luigi Nono, ai film, ai documentari storici. La morte, nel '73, lo colse nel pieno di uno slancio progettuale per vivificare dall'interno una cultura di sinistra ossificata e immobile. Le lettere del volume, inviate da Giovanni ventenne ai familiari, rivelano le «tracce» sensibili delle esperienze vissute su tutti i fronti della Seconda guerra mondiale, tranne quello dell'Africa settentrionale. Un epistolario, quindi, in grado di svelarci il suo percorso di formazione, il momento di disvelamento della sua personalità, quello della rottura traumatica con il suo mondo, con i «valori» della sua adolescenza. Non è solo il passaggio dal fascismo all'antifascismo. Tranfaglia giustamente insiste nella sua introduzione sul particolarissimo rapporto padre/figlio che da queste lettere emerge. La vicenda di Giovanni non è nuova e ha un suo insupe rato modello letterario nei Bud denbrook descritti da Thomas Mann. Anche lì una famiglia di solidi e appagati borghesi vede col fluire delle generazioni affiorare nuove vocazioni, talenti artistici, astrazioni sentimentali presto incompatibili con le ragioni dell'azienda. Ma tra Giovanni e suo padre questo schema non viene rispettato. Non è uno scontro tra rigore morale e sordido affarismo. Alberto Pirelli capisce perfettamente il tormento interiore del figlio. E non vi si contrappone frontalmente, pur non rinunciando mai ad essere se stesso, a ricordargli i doveri e le responsabilità che lo attendono. «In te — scriveva al figlio — le esperienze tra uomini semplici come i tuoi alpini e lo spettacolo delle sofferenze e della morte hanno probabilmente affinato quella sensibilità ai moti dell'animo come agli spettacoli della natura, quella tendenza alla meditazione astratta dalle quali, se desidero metterti in guardia, non è già perché io non le apprezzi, ma perché non vorrei che ti potessero dominare oltre misura... a meno che tu non voglia fare il filosofo». C'è poi un'altra chiave di lettura, più complessiva, che fa di queste lettere uno straordinario «romanzo di formazione», ed è quella legata agli elementi che scandiscono il percorso di Giovanni lungo il sentiero accidentato del «tradimento» della propria classe sociale. La sua prosa limpida e asciutta ce li restituisce con chiarezza. Giovanni va in guerra con lo stesso spirito di «apprendistato» che segnava l'esperienza «nelle colonie» dei giovani aristocratici inglesi. I suoi propositi iniziali sono quelli che qualsiasi padre vorrebbe leggere nei propri figli. «Per me — scriveva il 2 dicembre 1939 — è ora di cominciare una vita di lavoro e di conclusione: sono molto giovane, ma non è mai presto per intraprendere l'arduo lavoro che mi aspetto. Ho come immediata prospettiva un durissimo anno di studio: ci vado incontro con energia...». Le sue lettere traboccano di notazioni turistico-letterarie, tipo guide del Touring, si riferiscono a frequentazioni familiari e rassicuranti, ai «quattro amici bocconiani» con cui «organizzare una partita a bridge, una spedizione al cinema, un pranzetto in qualche osteriola». La sua adesione al fascismo, la sua fiducia nell'esito vittorioso del conflitto sono tutt'uno con la sua adesione alle forme e ai contenuti della buona società milanese. Convive con naturalezza con il privilegio e la ricchezza («Tutti mi chiedono se è possibile avere mantelline im permeabili. Io a priori ho detto di no, ma se vi fosse qualche fondo di magazzino, vedi di far ne spedire»), la sua fitta corri spondenza lo rende ancora tut to intero al mondo della sua fa miglia, di cui condivide lutti, gioie, piccoli e grandi eventi. Quando sente maturare i pri mi segni del cambiamento non li riconosce, li scambia per un malessere passeggero. «Mi sembra — scrive il 2 maggio 1941 — di scivolare a poco a po co, sotto i colpi delle delusioni e delle contrarietà, in quell'indif ferenza, menefreghismo, indolenza, che sono fenomeni molto diffusi anche in temperamenti che al principio erano animati di grande entusiasmo». Sotto i suoi occhi si è svolta l'infelice spedizione contro la Grecia, il fascismo ha già mostrato la sua tragica impotenza militare, l'inconsistenza gaglioffa della sua protervia politica. Proprio l'estate del 1941 quella della maturazione: «At¬ traverso questi anni di vita militare ho superato, avendola appena sfiorata, tutta una fase di vita. Superata la vita studentesca, e tutte le manifestazioni goliardiche... Superata la fase di passaggio dalla rigida amministrazione dei genitori a forme di vita più indipendenti». Si confronta allora con la guerriglia partigiana in Montenegro; scopre — in una permanenza di sei mesi a Berlino — gli orrori del razzismo, l'arroganza disperata del nazismo. Ma, soprattutto, comincia a vivere il privilegio come senso di colpa. Il suo mondo gli appare ora fatuo, inconsistente. A Berlino, i colleghi impiegati al Commissariato alle Migrazioni, lo disgustano: «Coi loro lai, il loro nichilismo, la loro leggerezza, mi danno già abbastanza sui nervi di giorno perché abbia ancora voglia di ritrovarli di sera». «Quella feccia dell'umanità» Quasi per un automatismo incontrollabile la sua attenzione cade sugli operai italiani che lavorano in Germania, così seri, così impegnati nel lavoro, così segnati da un'etica del sacrificio certamente più consona alla gravità del momento. Il formalismo estenuato della «gente per bene» è il sintomo del declino inarrestabile di un intero universo sociale, un universo che ormai rifiuta radicalmente. «Il "per bene" — scrive al fratello Leopoldo — non dice proprio nulla. Se questo attributo si riferisce a finezza di modi, puramente esteriore, il problema viene limitato entro termini molto angusti. Io, in genere, detesto la gente molto per bene. E' gente che ha avuto la vita troppo facile, e perciò le è venuta una mente piccina piccina... Io capisco di più i delinquenti che non gli snobbi, io li considero la feccia dell'umanità... Se arrivati a una certa età si possono fare degli appunti all'educazione materna, eccone uno: la Mamma ha curato sempre troppo la forma, nella scelta dei miei amici, ed io sono rimasto quasi senza amici. Quelli molto per bene non mi andavano, mi parevano tanto superficiali; altri che mi piacevano non avevano abbastanza finezza di modi per reggere alla severa prova di casa». All'avversione per gli «snobbi» si unisce finalmente la ricerca di un nuovo mondo. Una ricerca totalmente indeterminata nei suoi esiti, ma già sicura nella direzione da intraprendere: «Speriamo che à nostra generazione, che d. la guerra ha avuto una rapida maturazione e un crudo senso della vita, sappia trovare la via di mezzo, fra la rivoluzione sociale e l'indifferenza sociale...». Sono passati più di quarant'anni e quella ricerca è rimbalzata — irrisolta — su almeno altre duo generazioni di «transfughi» dalle certezze della propria classe di origine. Giovanni De Luna

Persone citate: Alberto Pirelli, Giovanni De Luna, Giovanni Pirelli, Luigi Nono, Nicola Tranfaglia, Rosellina Archinto, Thomas Mann, Tranfaglia

Luoghi citati: Berlino, Germania, Grecia, Montenegro