«Padroncini», un fenomeno solo italiano di Guido Tiberga
«Padroncini», un fenomeno solo italiano «Padroncini», un fenomeno solo italiano L'82% delle aziende non possiede più di due veicoli ROMA. L'Italia non ha vie navigabili interne. E la rigidità del sistema ferroviario mal si adatta alla tecnica industriale del Sìust on time», per cui le aziene limitano le spese di magazzino aumentando la frequenza dei rifornimenti. Logico quindi che l'85 per cento delle merci italiane viaggi su strada. Meno logico, e assai contraddittorio, è invece il frammentario sviluppo che il settore ha conosciuto negli ultimi anni. Le cifre. In Italia circolano circa 300 mila autocarri, ma le imprese censite dall'albo nazionale sono più di 210 mila. L'autotrasporto italiano, quindi, si presenta come il regno dei piccoli imprenditori: aziende familiari spesso senza dipendenti, con i «padroncini» che guidano personalmente l'unico automezzo di cui dispongono. L'82 per cento delle imprese (circa 160 mila unità) dispone infatti di un «parco macchine» limitatissimo: uno o due veicoli al massimo. Soltanto quattro aziende su cento possiedono almeno 5 automezzi. Pochissime, meno dell'I per cento, operano su scala più vasta, con una «flotta» superiore ai venti autocarri. E' una polverizzazione che non ha eguali in Europa, dove pure - stando ai risultati di «Eurotransport '93», uno studio internazionale commissionato dal nostro ministero dei Trasporti - il traffico su gomma vive un momento di buona salute. Nella Germania Federale, ad esempio, gli operatori del settore sono 40 mila, con una media di 12 mezzi per azienda. Stesso discorso per la Francia, dove lavorano non più di 35 mila autotrasportatori. Situazioni simili alla nostra, ma su valori nel complesso più bassi, si hanno soltanto negli altri Paesi della «periferia» europea: Spagna, Portogallo, Grecia. Anche in Gran Bretagna, dove il volume del trasporto su strada rappresenta il 78,5 per cento del traffico complessivo, il fenomeno dei «padroncini», non raggiunge i livelli italiani. Molte delle nostre imprese, proprio a causa dell'estrema parcellizzazione del mercato, lavorano ai limiti della sussistenza. Secondo i dati forniti dai sindacati, il camionista che si muove esclusivamente su scala locale non guadagna più di 150 mila lire lorde al giorno. Quello che opera sul territorio nazionale ha un fatturato maggiore: circa 120 milioni l'anno, ma tasse e spese riducono i suoi introiti effettivi a circa due milioni mensili. Guadagni più consistenti soltanto per i pochi «padroncini» che si sottopongono ai viaggi oltre frontiera: anche 200 milioni lordi, ma di fronte a più di 180 mila chilometri l'anno da percorrere. La competitività di queste aziende sul mercato è limitatissima, ed è destinata a scomparire del tutto con l'avvento del '93, quando le grandi imprese internazionali potranno operare anche sul mercato interno. Già adesso, per sopravvivere, i «piccoli» devono ricorrere a sotterfugi continui: sovraccarico dei veicoli, riduzione «selvaggia» delle tariffe, violazione dei limiti di velocità, soprattutto mezzi poco efficienti. Al proposito, le statistiche dell'Anfia, l'Associazione nazionale delle industrie automobilistiche, parlano chiaro: il parco veicoli dell'autotrasporto italiano (in media 8 anni di età, 17 anni di vita), è da tempo il più vecchio d'Europa. Guido Tiberga
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