«A quelle catene era legato il cane non Carlo Celadon» di Giuliano Marchesini
«A quelle catene era legato il cane non Carlo Celadon» I presunti rapitori al processo «A quelle catene era legato il cane non Carlo Celadon» VICENZA DAL NOSTRO INVIATO Il pubblico ministero Antonino De Silvestri si alza e dice: «Noi stiamo cercando Carlo Celadon. Siamo ancora in tempo: ci dicano dov'è». C'è un momento di silenzio, nell'aula del tribunale. S'interrompe l'interrogatorio di Francesco Sagoleo, di Africo Nuovo e residente a Torino, uno dei cinque uomini accusati di essere stati per un certo periodo i «carcerieri» del ragazzo sequestrato il 25 gennaio dell'88. E' un avvocato della difesa a rispondere, con irruenza: «Se non sono loro, i rapitori, cosa vuole che le dicano?». Il tentativo del pubblico ministero di trovare una breccia per arrivare alla liberazione di Carlo cade nel vuoto, mentre i volti dei cinque imputati sembrano di pietra. Non restano che le deposizioni di questi personaggi, che avrebbero avuto una parte nel dramma del ragazzo di Arzignano. Uno spiazzo, un ovile e una capanna, nel territorio di Pizzo Calabro: secondo l'accusa, il posto in cui Carlo Celadon fu tenuto prigioniero, incatenato, per circa quattro mesi. Secondo gli imputati, un quieto luogo di pastorizia, tra le pecore, le capre, la mungitura e le forme di cacio. Il primo a dare questa immagine è Natale Calfapietra, che si presenta come pastore solerte. Ma qualcosa che preoccupava, dice, in quell'ovile c'era: qualcuno andava a rubare agnelli, nel pieno della notte. Così, la capanna sarebbe servita come una specie di «posto di guardia» contro i predatori. E quella catena trovata accanto alla baracca, a che cosa serviva? «Ma a tenerci legato il cane», risponde Calfapietra. Ce n'erano altre, di catene. «Con quelle tenevamo ferme le capre più irrequiete, se no finivano per prendersi a cornate». Calfapietra torna al suo posto cercando l'assenso dei compagni. Suo fratello Emanuele del gregge s'è occupato per qualche tempo. «Poi ho lavoricchiato qui e là». Lo incalza il presidente Francesco Aliprandi: «Se lei non faceva più il pastore, cosa ci andò a fare in quell'ovile? Nostalgia dell'ovile, forse?». Emanuele Calfapietra s'aggancia alle dichiarazioni del fratello: «Là ci venivano i ladri, bisognava difendersi. Così mi son messo anch'io». Ecco ora Mario Leo Morabito, diplomato all'Istituto d'arte. «Compare Ciccio», per gli amici. E' molto agitato, mette le mani avanti: «Io sono esaurito, non ne posso più». Domanda secco il pubblico ministero: «E' vero che lei ordinò di portare il cibo all'uomo che era custodito nella capanna?». Mario Leo Morabito getta un urlo: «Io? Ma stiamo scherzando?». Leonardo Marte, che gestiva a Vicenza una pizzeria a conduzione famigliare, si mette a parlare anche per conto degli altri: «Come ve lo dobbiamo dire che noi non sappiamo niente del sequestro Celadon?». Tra gli imputati, c'è anche un avvocato, Aldo Pardo, accusato di aver tratto un profitto dalla trattativa dopo essersi offerto come «intermediario». «Quei soldi — dice il legale — sono serviti soltanto per ungere i canali informativi». L'udienza finisce qui, perché Mario Leo Morabito accusa un malessere e non può presenziare. Si riprenderà il 19 marzo. Candido Celadon, il padre di Carlo, aspettava di essere sentito come parte lesa. Se ne va con un gesto di desolazione. Giuliano Marchesini
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