Tra i tedeschi di Slesia alla riscossa di Tito Sansa

Tra i tedeschi di Slesia alla riscossa Viaggio fra revanchismo e paure nelle comunità che ora rivendicano l'autonomia Tra i tedeschi di Slesia alla riscossa La grande diffidenza di Varsavia e i «pellegrinaggi» dall'Ovest GLIWICE DAL NOSTRO INVIATO Quaggiù, ai margini del bacino minerario e industriale di Katowice, dove il fumo di centinaia di ciminiere si sostituisce alla bruma dei campi, nessuno è disposto a parlare in tedesco. Fa eccezione un insegnante che vuole restare anonimo il quale spiega il motivo, che immaginavo. Gliwice, che sotto il Reich si chiamava Gleiwitz, è il luogo dove scoccò la scintilla che fece scoppiare la seconda guerra mondiale. Fu un pretesto. La notte fra il 30 e il 31 agosto 1939 il commando dell'SS Naujocks con indosso uniformi polacche inscenò l'assalto al «Reichssender», la stazione radio della propaganda nazista. La trasmittente fu distrutta, sul posto furono assassinati sei ebrei vestiti da soldati polacchi, Hitler finse di andare su tutte le furie, il primo settembre scatenò la guerra. «Lei deve capire la gente di Gliwice — dice l'insegnante —: la Polonia ha avuto sei milioni di morti a causa dei nazisti. Quaggiù vale sempre il vecchio proverbio che "neppure fra mille anni un polacco e un tedesco potranno diventare fratelli"». Fanno paura, spiega il professore, soprattutto i tedeschi della Germania ex comunista, la Ddr, «ora che il coperchio ò stato sollevato e che la pressione di quarantanni di dittatura sta venendo fuori». La televisione ha fatto vedere dimostranti di Lipsia che agitavano bandiere naziste, ogni giorno arrivano da queste parti decine di automobilisti tedeschi che vengono a vedere e a misurare i terreni e le case da loro abbandonati dopo la fine della guerra. «La gente non si fida, teme la germanizzazione». Per parlare del problema della minoranza tedesca in Polonia e della disputa sul confine lungo la linea Oder-Neisse, bisogna tornare verso Occidente, intorno a Opole, dove i tedeschi sono in gran numero, e a Wroclaw, la già fiorente Breslavia, dove sono rimasti soltanto in millesettecento. Hanno un loro giornale, la «Volkstimme», Voce del popolo, ed ora anche un settimanale bilingue, la «Westzeitung», Giornale dell'Occidente, stampato con la città gemellata di Wiesbaden. Il problema esiste, lo ha affrontato il vescovo di Opole, monsignor Alfons Nossol, presidente del Consiglio scientifico della Conferenza Episcopale polacca. Richiamandosi alla visita del Papa nel 1983 alla chiesa di Annaberg (roccaforte religiosa dei nazionalisti tedeschi) il prelato ha diffuso la settimana scorsa una lettera nella quale, in lingua polacca, invita i fedeli delle due etnie a seppellire l'odio e a convivere nel nome del Signore. «Una nobile lettera pastorale — dice Dorota Simonides, di Solidarnosc, eletta un mese fa al Senato di Varsavia — una lettera necessaria». La senatrice, che ha sconfitto il rappresentante della minoranza tedesca, è slesiana di etnia polacca, ma prende le difese della minoranza tedesca. «E1 gente laboriosa, ordinata, religiosa, di severa moralità — dice —: forse un po' ingenua e primitiva. Dopo che gli intellettuali e i funzionari sono partiti, sono rimasti qui solo i contadini, impauriti, sottomessi. Ora che avvertono il risorgere della grande Germania ritrovano l'orgoglio perduto. Dicono che vogliono emigrare, ma poiché l'integrazione in Germania è difficile pensano che è meglio essere tedeschi in Polonia che polacchi in Germania. In realtà vogliono solo essere tedeschi a casa loro. Bisogna capirli». Un altro polacco, il professor Frantiszek Marek, docente alla Scuola di Pedagogia di Opole, si batte per i diritti della minoranza germanica. Ha scritto un libro, «La tragedia dell'Alta Slesia», che narra la storia della sua famiglia, con tombe in cinque Paesi, sollevando un polverone. I tedeschi non lo hanno capito e lo considerano un nemico. Ha avuto infatti il torto di scrivere che i tedeschi della Sle- sia non sono autoctoni, come dimostra il fatto che non hanno un dialetto: «Parlano il tedesco importato, quello dell'amministrazione e delle scuole, con accento slavo, segno che non è la loro lingua materna». Per soddisfare i desideri dei tedeschi inquieti e anche per snebbiare le loro menti dai sogni pangermanisti, il docente lotta per reintrodurre l'insegnamento del tedesco come lingua obbligatoria nelle scuole. Avversato dai nazionalisti tedeschi, malvisto da quelli polacchi, il professor Marek ha organizzato cinquantatré corsi di tedesco che prenderanno il posto del russo. E all'Università due docenti di Kiel terranno corsi di germanistica. L'in¬ segnante dice: «Soltanto tenendo conto dei diritti delle minoranze — cosa che il regime comunista non ha capito — si combattono i nazionalismi e si rendono superflue le discussioni sulle ffontiere, qui da noi. Quel che accadrà nella grande Germania è un altro problema più grande di noi». A Breslavia, nel vecchio albergo Monopol, arrivano ogni giorno visitatori dalla Germania. Vogliono vedere l'appartamento numero 113, dove nel 1936 dormì Adolf Hitler. L'albergo, carico di specchi e di lampadari, è ridotto in condizioni pietose. I forestieri vanno solo a vedere la famosa suite di lusso, poi vanno a dormire nel moderno hotel Wroclaw. Qui l'altro giorno sono arrivati tre signori che parlavano tedesco. Il portiere Bronislav Wolonski ha domandato: «Vengono dalla Germania federale o dalla Ddr?». Era per favorirli, per sapere se avrebbero dovuto pagare solo 7 mila lire (come i clienti dei Paesi ex comunisti) o dieci volte tanto, 70 mila lire (come i clienti «capitalisti»). Quasi all'unisono i tre hanno risposto secco: «Wir sind Deutsche», siamo tedeschi, uno ha aggiunto «e basta». I tre erano della Ddr. «Ho paura», mi ha sussurrato in italiano il portiere Wolonski, profugo da Leopoli, ora Unione Sovietica, che non è un ragazzino. Tito Sansa V^A. A A A MARE DEL V^AlN0RD_ Nella cartina la zona della Slesia (già territorio del Terzo Reich) dove vive una comunità tedesca

Persone citate: Adolf Hitler, Alfons Nossol, Dorota Simonides, Hitler