Fra i turcobulgari, ultima spina di Sofia di Giuseppe Zaccaria
Fra i turcobulgari, ultima spina di Sofia BULGARIA Il conflitto etnico ha spiazzato la nuova leadership: già si affaccia lo spettro di nuove violenze Fra i turcobulgari, ultima spina di Sofia La folla obbliga Lukanov a un contraddittorio pubblico SOFIA DAL NOSTRO INVIATO A trattenere la folla è solo una banda di plastica rossa, ma la sensazione è che se quel filo si spezzasse ben altri equilibri si romperebbero nella Bulgaria d'oggi. Saranno 10, 15 mila i turchi che assediano il palazzo dell'Assemblea Nazionale. Gente dura, venuta dalle campagne: donne col capo avvolto in fazzoletti multicolori, uomini col pacco della colazione sottobraccio. Se ne stanno in silenzio a lungo, poi ogni tanto scandiscono «svoboda», libertà, e chiedono a gran voce il diritto al nome. Sarà forse un segno dei tempi, ma d'un tratto gli slogan cessano e parte ingenuo un applauso. Incredibile: il leader è sceso in piazza. Andrei Lukanov, capo del governo e del rinnovamento comunista, è un signore dai capelli bianchi avvolto in un incongruo cappotto di chachemire. Lo proteggono le divise della Milizia. Attacca: «Tornate a casa, non è questo il giusto modo di reclamare i vostri diritti... Tutta la Bulgaria attende le decisioni dell'Assemblea, dobbiamo trovare il modo di unirci, non di dividerci». Nella folla dei turchi, l'attesa comincia a virare verso la delusione. E' dall'84 che questa gente, quasi un milione e mezzo di persone, il nerbo della classe operaia bulgara, la spina dorsale dell'agricoltura, ha perso per decreto il diritto al nome. Teodor Zhivkov, l'antico leader, aveva deciso di «bulgarizzarli» in un meditato sussulto di nazionalismo. Due mesi fa, il nuovo governo ha invertito la rotta, ma le leggi non sono ancora operanti, il diritto all'identità passa ancora attraverso tribunali ed un'alluvione di carte. «Tornatevene a casa», insiste Lukanov, vagamente minaccioso. Ma la folla, compatta, risponde: «No». L'altra sera, al telegiornale, il leader dei turchi, Ahmed Dogan, aveva lanciato un appello che ha rischiato di diventare storico. Non per i contenuti (era l'ennesimo invito alla calma) ma per il modo in cui veniva lanciato: accanto al capo della minoranza c'era il leader dei nazionalisti, quel Minko Minchev che da colonnello della Milizia si distinse nella repressione della protesta turca, e adesso cerca spazi nella valorizzazione di un'improbabile identità europea del Paese. Ma i tempi, si diceva, sono davvero mutati. Avrebbe mai potuto immaginare, un leader bulgaro, di essere avvicinato in piazza da giornalisti occidentali e ritrovarsi persino a rispondere? Invece succede. Lukanov si trova di colpo circondato, tenta di dire che non ha tempo. Poi, vinto lo stupore, riprende il controllo ed abbozza qualche risposta. «La questione della minoranza turca? Intanto, bisognerebbe capire se si tratta di un problema individuale oppure collettivo. Se cioè, intendo, sia più utile modificare le leggi nell'interesse di tutti i cittadini di origine turca o se sia meglio che ciascuno, personalmente, decida se e quando tornare al suo vec- chio nome...». Una cronista bulgara incalza il leader con domande sferzanti, ma lui non si scompone: «Le procedure? Certo, potrebbero cambiare. Anziché ai tribunali potremmo affidare ai sindaci il compito di attribuire a ciascuno il suo nome di un tempo. Ma possono esserci giovani che invece intendono mantenere il nuovo nome bulgaro: glielo si vorrebbe impedire? Stiamo studiando meccanismi nuovi, tenteremo di stabilire procedure che richiedano al massimo 2 settimane. Ma in fondo io non credo esista un problema della minoranza turca: al massimo, una somma di problemi individuali...». Sta parlando sempre più sciolto, il leader, quando dalla folla si stacca un bambino. E' la miniatura di un uomo-sandwich, indosso porta un cartello scritto in cirillico che dice: «Liberate mio padre». E quando se lo trova a fianco, perfino il lucido Lukanov per un attimo interrompe l'eloquio. Il piccolo dice qualcosa, il leader sembra imbarazzato, poi lo accarezza e sussurra a quelli che lo circondano: «Annotate il suo nome». Si chiama Rusen Saberliev, il piccolo, disarmato, minacciosissimo dimostrante. O meglio, si chiamava Riza Salim Salev. Ha 12 anni, viene da Kardzali, un grosso centro agricolo del Sud: suo padre, Salim Miumiunov Salev, è in carcere dall'85, condannato a 12 anni. Per aver organizzato le proteste della sua gente, l'hanno ritenuto responsabile di spionaggio e di associazione sediziosa, e adesso si trova nel carcere di Stara Zagora. Adesso piange, il bambino. Dalle donne turche sedute in prima fila parte un applauso commosso. Anche il premier al piccolo dimostrante fa una carezza imbarazzata. Potrebbe essere una pagina del libro «Cuore», se non fosse invece il primo capitolo della storia d'un gruppo etnico che esce da una tradizione intrisa di sangue e rischia di ripiombarvi. Giuseppe Zaccaria
Persone citate: Ahmed Dogan, Andrei Lukanov, Lukanov, Riza Salim Salev, Salim Miumiunov Salev, Zhivkov
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