Con queste idee non si va in Europa di Alfredo Recanatesi

Con queste idee non si va in Europa FINANZA PUBBLICA Con queste idee non si va in Europa SE un ministro del Tesoro — di quelli, peraltro, che tendono a limitare alle sedi istituzionali la manifestazione del proprio pensiero — ha ritenuto ieri, entrando a Palazzo Chigi, di doversi schierare a favore dell'autonomia della Banca d'Italia, le cose non stanno messe affatto bene. La dichiarazione resa da Carli è riferita evidentemente al risentimento che gli altri due ministri economici, Formica e soprattutto Pomicino, avevano manifestato per il fatto che la Banca d'Italia ha appostò il sigillo della sua autorità su quanto ormai tutti sapevamo, ossia che le previsioni finanziarie per il 1990 erano addomesticate. Perciò la previsione di un disavanzo di 133 mila miliardi è stata già travolta, e quindi la stessa Banca — come sempre in simili circostanze — si appresta a stringere ancor più i freni monetari per evitare che quei 15-20 mila miliardi in più di disavanzo rimangano in giro nella nostra economia ad alimentare l'inflazione. Forse la dichiarazione di Carli ha anche un altro e non meno importante riferimento, ma per il momento fermiamoci alla Banca d'Italia. Non è la prima volta che gli esponenti più rappresentativi del governo dimostrano insofferenza nei confronti della Banca d'Italia quando questa opera o argomenta sul suo primario compito di salvaguardare la stabilità del valore della moneta. Non è neppure la prima volta che questo risentimento sfocia nelle tesi — magari esposte per vie un po' più traverse — di una revisione dei rapporti tra Banca d'Italia e Tesoro al fine di recidere quel nesso di proporzionalità che in regime di mercato si stabilisce tra l'entità dei titoli da emettere ed il rendimento da offrire per poterli collocare. Cosa propongano costoro, per altro, non è mai stato chiaro dal momento che come alternativa a questa condotta della Banca d'Italia la scienza economica non sa indicare che due soluzioni: il finanziamento del disavanzo con la stampa di moneta (e, dunque, con l'inflazione), o la reintroduzione di vincoli amministrativi (collocamento forzoso dei titoli, divieto di investire all'estero e tutti gli altri retaggi degli Anni 70 per sbarazzarci dei quali abbiamo impiegato quasi tutto il decennio passato). Ma la meccanica di questi fatti è ormai chiara a tutti, compresi gli operatori stranieri i quali continuano a portare i loro soldi in Italia non per fiducia in chissà cosa, ma perché anche loro sanno bene che, sfuggendo di mano il disavanzo statale, questo bengodi finanziario che ormai è diventato il nostro Paese non potrà che offrire tassi ancor più elevati. Ciò che, forse, è meno chiaro è che quel risentimento, quelle tesi, questo modo di vedere le cose sottintende l'incapacità di considerare il settore pubblico come una articolazione di ruoli, di compiti e ili responsabilità diversi. Proprio perché ci sono e ci devono essere, queste distinzioni assicurano le scelte più aderenti agli interessi generali della collettività. Questa incapacità ad accettare il pluralismo anche per ciò che di scomodo esso comporta sta rafforzando nel governo l'inclinazione ad asservire le altre istituzioni ai propri disegni ed alle proprie esigenze. Ciò appare evidente proprio sul terreno della finanza statale. La questione finanziaria sta diventando sempre più inestricabile perché il disavanzo è fatto ormai quasi tutto di interessi, con la conseguenza tecnica che ogni aumento dei tassi necessario per accrescere il collocamento dei titoli determina un peggioramento dei conti tale da richiedere il collocamento di altri titoli, e con la conseguenza politica che è diventato arduo, specie per instabili governi retti da litigiose coalizioni, ipotizzare un risanamento con aumenti di entrate e riduzioni di spese da destinare alla corresponsione di rendite finanziarie. La tensione quasi disperata con la quale esponenti di governo cercano la strada per una riduzione dei tassi si può dunque comprendere, ma questa strada può mai passare per una maggiore flessibilità della Banca d'Italia, o per la sostituzione di Ciampi con una persona più comprensiva? Per quanto assurdo, pare che qualcuno nel governo lo creda. D'altra parte, gira voce, non smentita, che nel consiglio di gabinetto — il fior fiore del governo — alcune banche dell'Ili siano state messe sul banco degli imputati perché sospette di aver finanziato la costituzione di queir 11 e passa per cento di Enimont che, unito al 40 per cento di Gardini, Jia sancito la natura privata di quella società. Vera o no che sia questa voce, Carli ne sa qualcosa e ieri probabilmente è stato indotto ad accantonare la sua usuale riservatezza anche per offrire una pubblica testimonianza contro chi, persino nella compagine governativa, ritiene che le banche pubbliche (cioè quasi tutte) debbano operare non secondo la loro responsabile autonomia, ma in funzione, o addirittura come braccia operative, dei disegni governativi o, più genericamente, politici. Carli ha un bel richiamare la nostra appartenenza all'Europa; la realtà è che suoi colleghi di governo ancora credono di potersi avventurare negli Anni '90 con mentalità e metodi che già negli Anni 'SO sarebbero apparsi di retroguardia. Alfredo Recanatesi es^J

Persone citate: Carli, Ciampi, Formica, Gardini

Luoghi citati: Europa, Italia