«lo, pentito condannato a morte» di Francesco Santini

«lo, pentito condannato a morte» Parla un ex camorrista: non si fa abbastanza per proteggere chi aiuta la giustizia «lo, pentito condannato a morte» «Vivo nel terrore, meglio in carcere che libero» ROMA. Le cosche contro i pentiti. In un covo di Catania, trenta pistole e tremila proiettili. Giubbotti di protezione e radio trasmittenti per un blitz clamoroso contro Filippo Lo Puzo e Salvatore Parisi, in città per testimoniare a un maxiproceso. Collaborano con la giustizia: l'ordine è di ucciderli. Tacciano per sempre. Il clima si fa rovente e a Roma, dall'aula bunker di Rebibbia, Francesco Marino Mannoia rispedisce a Palermo la Corte d'assise d'appello. Vuole più garanzie. Si rifiuta di rispondere ai giudici siciliani sui segreti della «mafia della costa». Appoggia lo sciopero della fame di quanti, nel carcere di Paliano, chiedono protezione serrata per i familiari. La galassia del pentitismo italiano è in ebollizione e il governo corre ai ripari. Gli esperti del ministero dell'Interno e della Giustizia hanno elaborato un progetto di legge. Per quanti hanno collaborato a sconfiggere il terrorismo e a minare le cosche mafiose è ormai tutto è pronto. Il loro nome sarà cancellato dall'anagrafe. Avranno una nuova identità. Un lavoro, prò babilmente all'estero, una casa. In carcere una protezione adeguata. Fuori, una scorta armata, per se, per i familiari. Ma intanto? «Per ora è un inferno — dice un alto funzionario dell'Antimafia — e la legge non può essere rinviata: il pericolo è che la «categoria» dei collaboratori della giustizia scompaia dai nostri orizzonti». Intanto il pentito vive nel terrore. Ogni sera, all'imbrunire, Roma si popola di ombre e un posto per dormire è difficile. Pensioni e camere d'albergo. Lenzuola sporche e umide. Sempre in attesa dell'alba, per riprendere la fuga e non farsi ammazzare. Sentiamo di Tonino Spisso, che comincia con l'angoscia, anche nel sonno, per quei novanta omicidi che ha ricostruito con i giudici di mezza Italia per scrivere la storia di Raffaele Cutolo e del suo clan. Tonino Spisso, 33 anni, capozona a Nocera Inferiore per la Nuova Camorra Organizzata. «E' inutile cambiare nome: so che se decidono di uccidermi mi trovano in 48 ore». Cerca un letto diverso ogni notte, ma rientrando in una strada sconosciuta, una persona con una mano in tasca lo fa tremare: può nascondere una pistola. Le gambe gli tremano, i secondi rallentano, interminabili. «Poi quell'ombra mi passa accanto, ancora due tre passi nell'incertezza e tiro un respiro profondo, fino alle lacrime perché capisco che un altro giorno è passato e le mie due bambine hanno ancora un padre, anche se a scuola, a Noce¬ ra, alla più grande che ha 8 anni, l'altro giorno hanno detto: Zitta tu: tuo padre è un infame, una spia». E' duro vivere da collaboratore della giustizia. E lo sciopero della fame dei pentiti rinchiusi nel carcere di Paliano va avanti. Ma Spisso, che è fuori da diciotto mesi, dice con rabbia: «A volte rimpiango il carcere. Oggi, senza un lavoro, senza una casa, con la famiglia lontana tutto è più difficile. Tante volte mi domando se non sia il caso di riprendere il mitra per tornare ad assaltare gli uffici postali, come facevo da ragazzo in giro per tutta Italia. Bei tempi quelli. Quindici, venti milioni in tasca. Una bella vita prima che la Nuova Camorra di Raffaele Cutolo mi chiamasse per giurare fedeltà ed entrare nell'Organizzazione». Braccato, sempre in fuga, Tonino Spisso, ha il volto segnato. Due anni di latitanza, tre di galera. Pochi obiettivi, ma precisi: salvare la vita, ottenere un lavoro, riunire, a Roma, la famiglia. Ha scelto Roma perché forse è più facile nascondersi. Napoli era impossibile. «Lì la Camorra controlla tutto e tutti: i morti di ogni giorno servono da esempio. Ma nulla si muove che non sia deciso dalla Nuova famiglia che ha vinto la guerra con Cutolo ed oggi impera, anche se ha cambiato sistema ed arruola persone insospettabili». Prima tutto era diverso. Oggi Spisso è tra gli imputati di spicco nel processo per associazione per delinquere ed estorsione ai danni degli imprenditori dell'Agro Nocerino. E' l'ultimo debito che va saldato e, intanto, tenta di ritrovare la tranquillità. Luogotente di Salvatore Di Maio, Spisso salì alla ribalta quando l'auto del boss Casillo, imbottita di tritolo, saltò in aria, a Roma. Dice Spisso: «Casillo era accusato di aver sottratto all'organizzazione vari miliardi. Io lo riaccompagnai a Roma da un summit in Campania: se avessi voluto ucciderlo, l'avrei fatto in autostrada. Sono stato scagionato dall'accusa di omicidio. Intendiamoci, altre volte, nella mia esistenza ho sparato. Ma non ho mai ucciso. Quando ero nella Nuova Camorra organizzata c'era uno squadrone della morte. Io non ne ho fatto parte. Il sangue non mi è mai piaciuto». Racconta della sua dissociazione, quindi della collaborazione con la giustizia. «Tutto è cominciato — dice — quando killer professionisti tornarono da un'azione di fuoco e invece di uccidere un magistrato presero la figlia, Simonetta Lamberti, 10 anni. Fu una vergogna. Uccidere una bambina. Nacque una frattura. E' impensabile che si parta per colpire il padre e si lasci per strada la figlia». Del pentimento, oggi, è scontento. «Mi hanno trattenuto dieci mesi in più in carcere. Mi hanno martellato per due anni. Notte e giorno. Decine di magistrati che si sono sempre fermati quando ho cominciato a fare nomi eccellenti. Sul terzo livello, quando cominci a chiamare in causa la gente che ha il potere nessun investigatore si vuole impegnare». Spisso racconta degli uomini che ha fatto arrestare. Poi comincia a fare nomi di parlamentari, di personaggi eccellenti. Ma il funzionario che ha seguito il suo caso per conto dell'Antimafia avverte: «Attenzione, con i pentiti è necessario usare le molle: sono necessari i riscontri obiettivi. Sono quelle prove che i giudici e gli investigatori spesso hanno cercato ma non sempre sono riusciti a controllare». Francesco Santini