A Berlino furoreggia l'anticapitalismo

A Berlino furoreggia l'anticapitalismo FilmFest: ad Ovest come ad Est grandi applausi (dieci minuti) per un documentario-con-fìnzione A Berlino furoreggia l'anticapitalismo «Roger & Me»: com 'è comica la vecchia disoccupazione! BERLINO DAL NOSTRO INVIATO Il più grande successo di pubblico del FilmFest è un documentario-con-finzione realizzato con mezzi di fortuna da un americano provinciale di 36 anni brutto, goffo e vestito male. A Berlino Ovest come a Berlino Est, «Roger & Me» di Michael Moore ha suscitato un identico travolgente entusiasmo, per ragioni diverse. E' un film comico e anticapitalista, il massimo per gli spettatori occidentali del Forum del cinema giovane: dieci minuti di applausi ardenti, grida estasiate, risate, un dibattito che non finiva più. E' un film comico e sulla tragedia della disoccupazione operaia, il massimo per gli spettatori tedesco-orientali, già in piena crisi di disoccupazione dopo la chiusura di grandi complessi come la centrale nucleare di Greifswald: sala strapiena, divertimento e rabbia, battimani furiosi specie quando il regista ha citato Lenin, «Il capitalismo fabbrica la corda con cui s'impiccherà». Candidato all'Oscar, divenuto il caso cinematografico americano più sorprendente, molto discusso, trionfante ai festival (Telluride, Toronto, New York), diretto da un piccolo giornalista che non aveva mai visto prima una macchina da presa, prodotto da una società battezzata «Dog Eat Dog» (Cane mangia cane), «Roger & Me», arrabbiato e divertente, si occupa di Flint nel Michigan, la cittadina americana operaia di 150.000 abitanti dove sono nati l'autore e la potente industria automobilistica General Motors, e del presidente della GM Roger Smith. Durante la presidenza di Smith, dalla metà degli Anni Ottanta, mentre i fabbricanti d'auto giapponesi invadevano gli Stati Uniti, la General Motors ha continuato a perdere quote di mercato e a trasferire impianti in Messico dove la manodopera costa meno, ha chiuso undici fabbriche licenziandone in massa i dipendenti. A Flint questo è costato, dice Moore, 35.000 posti di lavoro e una crisi mortale: «Roger & Me» ha come filo conduttore l'ostinato e vano tentativo dell'autore di portare il presidente della General Motors a vedere come sia ridotta la cittadina. Mescolando questi ripetuti e satirici tentativi a interviste con i disoccupati, citazioni di film, brani di vecchi telegiornali e di pubblicità televisiva, parate festose e cori aziendali, interventi di personaggi incongrui come Pat Boone e Miss America, reportage al seguito dello sceriffo che fa sgombrare dalle case gli operai non più in grado di pagare mutui o affitti, dichiarazioni degli amministratori di Flint, Michael Moore intende dimostrare, in stile populista-postmoderno, la asocialità di certo capitalismo americano, il fallimento del cele¬ brato spirito d'iniziativa americano di fronte a una catastrofe economica vera. Si ride molto dei pomposi ridicoli e degli accostamenti ironici, dei tentativi falliti di riciclare la Flint operaia in una impossibile Flint turistica. Ci si commuove ascoltando parlare i disoccupati sfrattati e quelli che per campare allevano conigli, vendono il proprio sangue, si dedicano allo smercio di crépes e tacos, vendono fiori ai semafori, perdono ogni dignità operaia e ogni speranza. Il problema, dice il regista con l'empito di Mark Twain, non è Roger Smith e non è neppure la General Motors: «Il problema è un sistema economico sleale e ingiusto, non democratico, che fa del male a troppa gente e crea troppa violenza economica». Il problema che ha reso i documentaristi classici americani molto polemici verso Michael Moore, è il suo metodo: in qualche caso mistificante e demagogico, sempre misto nei materiali scelti e nei toni, secondo i critici fa perdere credibilità al realismo documentario. Non hanno tutti i torti, ma l'efficacia è grande, lo stile molto contemporaneo, e la discussione sulla verità-non verità dei media, già accennata rispetto ad alcuni programmi televisivi, è appena all'inizio. Nessun problema nei due film presentati ieri in concorso al FilmFest. «The Terracotte Warrior» (Il guerriero di terracotta), cinese di Hong Kong diretto da Ching Tung Yee, è una storia d'avventura molto divertente e ben fatta, un mix di «Kagemusha» e «Indiana Jones»: grazie a un elisir d'immortalità, si segue il protagonista dalla Cina imperiale di oltre tremila armi fa (parte drammatica) alla Cina Anni Trenta con una troupe cinematografica (parte comica) al 1990 dei turisti giapponesi (finale breve). Intorno alla monumentale tomba dell'imperatore Quin Shihuang vegliata da un esercito di guerrieri di terracotta e ai ladri di pezzi archeologici, magnifici duelli, scarpette di seta, temporali magici, grandi coreografie. «A Halàreitélt» (Il condannato a morte), ungherese, diretto da Jànos Zsombolyai, interpretato da Peter Malcsiner, racconta una delle vicende ormai consuete di innocenti perseguitati dai governi comunisti per motivi politici, ambientata tramite flashes-back fra il 1956 dell'ingresso dei carri armati sovietici a Budapest e il 1958 di tutte le vendette. Malcongegnato in piatto stile televisivo, il film ha un motivo d'interesse: si pensava che durante il regime di Janos Kadar non vi fossero state repressioni dure; invece, dice il regista: «Non si sa con assoluta esattezza quanti siano stati condannati a morte, ma furono circa trecento». Lietta Tornabuoni Pat Boone. Lina rapida comparsa nel crollo del mito americano per il film di Michael Moore