IL CIBO DI OMERO

IL CIBO DI OMERO IL CIBO DI OMERO A tavola dall'antichità al Rinascimento sostiene anche, se non soprattutto, in virtù di quel sotteso e consustanziale sentimento di piacere che alimenta in sé, di quell'immagine di «giubilo» (per presenza o mancanza, soddisfazione o desiderio) che è nella natura della tavola. Ciò che oggi può sembrarci ovvio, però, non lo è stato fino a ieri per la storiografia idealista dominante, per la storiografia dei re, dei generali, delle battaglie. Quella che poteva fare a meno dell'economia, della società, dei cittadini e dei contadini. Che si potesse scegliere il cibo come elemento o strumento per leggere "e interpretare una buona fetta della storia (minimalistica ma non negli effetti, a ben leggere e interpretare le cause di guerre, migrazioni, sommosse, rivoluzioni) è un punto di vista storiografico di abbastanza recente acquisizione, che annovera pure in Italia pocbi, validissimi studiosi. A pranzo con l'Odissea Uno di questi è Massimo Montanari, professore all'Università di Bologna, autore di testi sull'alimentazione e l'agricoltura medioevale (essendo egli un medievalista) assai pregevoli. Ultimo dei quali ecco Convi¬ vio-Storia e cultura dei piaceri della tavola, edito da Laterza. Di che si tratta? Di primo acchito di una sorta di antologia, mentre più esattamente si deve dire che questa è una ricchissima raccolta di documenti e testimonianze sul senso della tavola, dalle origini (nella fattispecie Omero) alle soglie del Rinascimento. Con una ragione, al di là della specifica e accademica specializzazione dell'autore, perché quello è il tempo in cui si è progressivamente strutturata e organizzata sia la funzione del «convivio» che il linguaggio simbolico che la coinvolge. In altre parole, Massimo Montanari ha concentrato la sua attenzione più che sul dettaglio del cibo e dell'alimantazione in sé, o sulla loro funzionalità fisiologica ed economica, sui loro rituali, invece, riassumibili essenzialmente nell'idea di «tavola», di convito. Dal che si deduce quanto e quale alto grado di semicità stia nel cibo, se di sé informa i piaceri materiali e sensuali, la sacrificali tà religiosa, l'ascesi mistica, in un esercizio di catalizzatore unico, senza risorse linguistiche alternative. Riti, ripeto, che nelle loro liturgie, nelle loro rappresentazioni variano, si arricchiscono, compromettono tutta la sensibilità, tattile, visiva, uditiva, accanto alla necessaria gustati¬ va e olfattiva. I documenti, abbiamo visto, incominciano con Omero. D'accor,do, lo so, è un'iperbole, una provocazione intellettuale sostenere che l'Odissea è in realtà la storia di un lunghissimo pranzo, il più lungo mai visto, alla tavola dell'assente Ulisse, intervallato da due altri pranzi, allietati da musiche e canti epico-didascalici, nei quali si danno tutte le informazioni, si racconta l'avventura che è nel titolo; per chiudersi poi con uno straordinario massacro in cui sangue vino cibo e vomito si mescolano (com'è che Bunuel non ne ha fatto un film, lui che il banchetto l'ha tanto linguisticamente sfruttato?). La raccolta si chiude con l'umanista Platina del De honesta voluptate et valetudine, un testo fondamentale davvero, già tipicamente rinascimentale, in cui i due concetti di piacere e di salute, che reciprocamente si condizionano in cerca di un'armonia, innescano un discorso dietetico che esploderà in tempi successivi, diventando centrale fino ai giorni nostri. Non era certo una novità, come dimostra Massimo Montanari, se poche pagine appresso a Omero egli mette il Regime di Ippocrate, in attesa che accanto alla preoccupazione salutistica cresca l'altra, cristiana e classisticamente sociale, della mortificazione della carne e del non sperpero delle risorse, della non sperequazione tra ricchi e poveri, che è il vero tema e il vero senso di un pensiero che ha scelto proprio un convivio, eucaristico, come segno misterico, liturgico di sé. Dal Satyricon a Gregorio di Nissa a San Girolamo a San Benedetto, prima di sbarcare al Platina. Quella che sta in mezzo è una festa alla lettura, golosa come si conviene, con testi che forse potrebbero essere accresciuti (che so, il Vangelo, che di convivi non è avaro, come non lo è la Bibbia). Ci sono tutti quelli che contano, c'è Archestrato e c'è Varrone, c'è Plinio e c'è Plutarco, ma ci sono pure Paolo Diacono, Notkero Balbulo, Eginardo, Liutprando di Cremona, i «barbari». C'è il fabliaux cuccagnesco assieme al boccaccesco Bengodi, due classiche proiezioni favolose pauperali; ci sono lo storico Salimbene e il romanziere Chrétien de Troyes, i Nibelunghi e re Artù... Dalla corte al convento Ma c'è soprattutto il lavoro di Montanari, che non si esaurisce nella sua godibilissima prefazione, tanto scientificamente chiara e agibile. Lì si evidenzia la funzione aggregativa, conviviale appunto, che travalica l'evento gastronomico, della tavo¬