Ritratto di una capocosca

Ritratto di una capocosca Ritratto di una capocosca A fianco del boss per 15 anni E ora è più spietata di lui CATANIA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE «Boss in gonnella», «donna manager della mafia». Dall'arresto di Giuseppe Ferrera, Lucia Cannamela era il capo riconosciuto di una delle famiglie «storiche» della malavita cittadina: quella dei «Cavadduzzu», imparentati con Nitto Santapaola, il boss latitante accusato, fra l'altro, del delitto Dalla Chiesa. Donna elegante (ieri al momento dell'arresto indossava una pelliccia nera e gioielli di grande valore), ha alle spalle una vita turbolenta: alcuni precedenti penali per sfruttamento della prostituzione e contrabbando; un'unione fallita e un figlio, prima dell'incontro con Giuseppe Ferrera, dal quale ha avuto due bambini, un maschio e una femmina. Il suo arresto, ieri mattina all'alba nella saletta d'imbarco dell'aeroporto di Fontanarossa, è avvenuto sotto gli occhi di decine di passeggeri in attesa. Lucia Cannamela era giunta all'aeroporto accompagnata dal figlio maggiore. I carabinieri che la seguivano hanno atteso che posteggiasse la sua Audi, che portasse a termine le formalità di imbarco. Poi, quando hanno capito che era il momento giusto per entrare in azione, le si sono avvicinati. «E' lei la signora Lucia Cannamela? La preghiamo di seguirci, abbiamo un ordine di cattura». La donna non si è scomposta. Senza dire una parola si è fatta arrestare. Lucia Cannamela viveva con Giuseppe Ferrera da una quindicina di anni. E si presentava in ogni occasione come «la signora Ferrera». Per lei, la vita accanto al boss non dev'essere stata facile. I «Cavadduzzu» sono ritenuti terminali importanti del traffico della droga in Sicilia. E Giuseppe Ferrera è stato uno degli imputati al primo maxi processo di Palermo dove ha riportato una condanna a 22 anni di reclusione. Ma quelli di Ferrera non sono solo guai giudiziari. Il boss è malato, soffre di una grave affezione polmonare. I giudici del maxiprocesso gli concedono il ricovero in ospedale. Prima a Palermo, poi a Catania, al reparto malattie polmonari dell'Ascoli Tomaselli», dove nel settembre di due anni fa Giuseppe Ferrera sfugge per puro caso a un attentato. Due sicari sparano da dietro una porta decine di colpi di fucile e pistola. Nessuno dei proiettili va a bersaglio. E' il segnale che qualcuno ha voluto sferrare un attacco contro il clan dei «Cavadduzzu». Si parla di una partita di droga non pagata, di contrasti con il cugino Santapaola. Giuseppe Ferrera ha paura. Fa installare una porta blindata nella sua stanza d'ospedale. Quando la magistratura ordina che la porta venga tolta, Ferrera fugge dall'«Ascoli Tomaselli». E' il 19 marzo del 1989. Pochi giorni prima quattro suoi guardaspalla sono stati assassinati in ima stazione di servizio dell'autostrada per Palermo. Ma la latitanza di «Cavadduzzu» dura poco. Giuseppe Ferrera viene catturato e torna in carcere. Ma a Catania rimane poco. Viene trasferito, per precauzione, nel centro clinico carcerario di Pisa, dove Lucia Cannamela lo va a trovale periodicamente, per informarlo di come vanno le cose a Catania, per consentirgli di continuare a guidare il suo clan anche da così lontano. Lucia Cannamela ha carta bianca. Guida la cosca con autorità. E non si occupa soltanto di ordinaria amministrazione. Il «racket delle pelli» sarebbe una sua creatura. I titolari dell'«Etna pelli» erano dei semplici prestanome. Era da lei che prendevano ordini. Era lei che attraverso attentati ed atti intimidatori di ogni genere metteva al tappeto la concorrenza, faceva crescere il capitale. Adesso che è stata arrestata, il clan dei «Cavadduzzu» è senza una guida. E questa circostanza avrà certamente degli effetti sui futuri equilibri della malavita catanese. Nino Amante Lucia Cannamela

Luoghi citati: Catania, Palermo, Sicilia