Fascetti, l'anticonformista di Gian Paolo Ormezzano

Fascetti, l'anticonformista Chi è lo scomodo personaggio tornato a Torino per una rivincita: da riserva nella Juve a guida dei granata verso la A Fascetti, l'anticonformista «E' vero: parlo secco, ma litigo poco» TORINO. Eugenio Fascetti, allenatore del Torino, dice in un dialogo riassuntivo delle sue peregrinazioni che la città, ormai trent'anni dopo la prima conoscenza, quando era venuto qui con un contratto bianconero non gli sembra diversa da quella di una volta, al massimo i fantasmi sono meno inamidati, quelli di Superga intende, di casa al Filadelfia. E gli sembra che al Torino l'Avvocato non sia più visto come gli dicono lo vedeva Nereo Rocco, un avversario implacabile e superpotente e incombente. Anzi. «Allora, quando venni qui, da mezzapunta, per non giocare nella Juventus 1960-61 campione d'Italia, ero un ragazzo, adesso credo di essere un uomo fatto, ma la città intorno a me, mi sembra sempre la stessa, con la sua vita chiusa, la sua dignità. Però a Torino finalmente si è deciso che si può aspettare mezzanotte per comprare il giornale, una novità, io arrivando qua parlavo di questa esperienza bolognese come di un qualcosa di favoloso». Era un ragazzo, 22 anni; adesso gli anni sono cinquantadue. Allora stava in tribuna («non c'era la panchina per i possibili subentranti»), adesso manda in tribuna Skoro. «Comunque adesso ci si allena di più, c'è più stress, più impegno. Un sacco di cose stanno intorno al calciatore, e creano pressioni, tensioni: per denaro, per automatismi di celebrità». Ci sono più giornalisti. «E diversi da quelli di una volta. Ai miei tempi di giocatore, seguire un allenamento della Juventus e scriverne sui giornali era la conclusione di un periodo di gavetta. Adesso arrivano giovani di primo pelo, magari con poca cultura, e sanno subito tutto. Al tempo stesso, oggi ognuno è in possesso di tante informazioni che urgono, forse per questo è impedita, nel lavoro giornalistico, la goliardia sana e disinquinante di una volta. Una sconfitta ti viene sbattuta davanti per dieci giorni». «Poi ci sono le televisioni, statali e private». Fascetti di recente ha avuto un tackle, su una rete locale, con il direttore del quotidiano sportivo torine¬ se. «Ma adesso ci siamo incontrati testa a testa, siamo sulla via di un miglioramento del rapporto, penso che la battaglia debba finire». Aggiunge: «Non non mi va l'accusa di essere pauroso: chi gioca in trasferta con tre punte, oltre al Toro?». Offriamo a Fascetti il sospetto che sia cambiato lui, in trent'anni, non il mondo intorno a lui (Oscar Wilde: «Scusatemi, signore, se non vi ho riconosciuto: il fatto è che sono molto cambiato»). Ammette: «E' possibile. Ma poi non dico mica che il mondo sia cambiato in peggio: per quel che ci riguarda, siamo garantiti meglio, noi e chi sta con noi, teniamo certi coltelli dalla parte del manico». Fuori del calcio, Fascetti è un ciclomane totale: «Non vedo l'ora che ricominci la stagione delle corse. Amo questo sport, vorrei che nascesse un campione italiano, non pretendo un Coppi, che pedalava in un ciclismo senza crude testimonianze televisive, mi basterebbe un Gimondi. Tanti paesi d'Italia sono pieni di gente che pedala, lo sport della bicicletta c'è, è vivo, io credo che i giovani lo praticherebbero in tanti se ci fosse il simbolo, e ci fossero tappe sotto la neve, di quelle che invitano a essere uomini». Torniamo al calcio, Fascetti non ama la Juventus, che lo tarpò da giocatore, e potrebbe ritrovarsela di fronte nella prossima stagione: se la Juventus non retrocede, gli ha sorriso qualcuno. «E se rimango io a Torino. Ma io penso che rimarrò, che si stanno creando i presupposti di una riconferma. Però bisogna chiarire tante cose: perché l'anno prossimo, in A, si perderà qualche partita, e c'è chi non mi vuole permettere queste licenze. Altrimenti vado a Viareggio, la mia città, dove sto benissimo, con un bel gruppo di amici. Ho già il programma: spiaggia, televisore portatile, Mondiali. Viareggio è anche la città dove scappo se non conquistiamo la A». Fascetti il tremendo, il caratteriale, il toscanaccissimo, si distende bene in una conversazione che va contro il suo personaggio convenzionale. «Convenzionalissimo. Io parlo sec- co, ma litigo poco. A Varese, a Lecce soprattutto, a Roma, ad Avellino mi sono fatto solo amici. La Lazio poi è stata un idillio, a parte quando io e il suo padrone ci siamo mandati a fare una certa cosa. I giornalisti romani erano, sono tutti con me». Dicono che Fascetti è fascista: «Né nero, né rosso, anche se talora, magari per fare scalpore, punto sul nero. Voto sempre, non voto a sinistra, ecco. Terraneo e Caso, miei nella Lazio, mi abbonarono per sei mesi all'Unità, che arrivava in cassetta delle lettere, visibilissimo, un bel tiro. In un'assemblea di condominio, tutta gente della Roma bene, mi diedero del comunistaccio». Tre figli, due femmine e un maschio, una laureata in lettere lavora a Milano, uno sta alla Bocconi, una comincia scienze politiche. «Poi in casa c'è mia moglie Mirella che mi sopporta: santa Mirella, dico io, anche se non lo dice il calendario». E' un po' superstizioso: «Ho giocato a Pisa, Bologna, Torino, Messina e Roma, in Sicilia ho imparato qualche sortilegio». Offre a Vicini una sua cabala: «Se per far vincere alla squadra azzurra il titolo basta che io tratti male Vicini come trattai Bearzot nel 1982, sono pronto, e pazienza se mi squalificano di nuovo per tre settimane». Gli offriamo un nome provocatorio: Boniperti. «Nella Juve non ci fu feeling fra noi due, io poi non ho mai capito cosa è lo stile Juventus. Comunque io, prima sotto Cesarmi e Parola, poi sotto Gren, non giocavo mai, dunque non ero un problema. L'ho incontrato un paio di volte a Forte dei Marmi, ciao ciào. Uno di questi giorni lo invito a cena, pago io si capisce, sennò non se ne parla nemmeno, e si fa amicizia. Da ragazzo ebbe lo choc della potenza del Grande Torino, io posso rassicurarlo, la squadra mia adesso è diversa». Familiarizza con i giocatori? «Il giusto, cioè poco, quando non si tratta di lavoro. Ma il lavoro è discusso sempre in gruppo. E se c'è da urlare urlo». Spiccioli, frattaglie. «Non sono manicheo, non sono alla Gianni Brera, non divido il mondo in lombardi splendidi, gli altri squallidi. Anche se mi sento orgogliosamente toscano». «Penso che si va verso un giocatore universale, un Gullit sano, al di là dei ruoli». «Sì, credo proprio che nel calcio non ci sia doping. Perché non è utile, nel nostro gioco, e secondo me anche perché in genere serve poco. Cocaina? Non me sono accorto mai». «Arbitri da aiutare con la moviola sì, da raddoppiare no. I filmati sono da usare ai fini disciplinari: in Germania è già così». «Policano scatenato piace alla curva, però deve imparare a passare la palla a Muller che si smarca». «Muller? Se cambia testa, diventa un grande: ma può cambiarla?». Gian Paolo Ormezzano Y JBkm^^4 Fascetti non accetta l'accusa di essere pauroso: «Chi, oltre a) mio Torino, gioca in trasferta con tre punte?»