Nino Manfredi; sedici anni fa volevo uccidermi

Nino Manfredi; sedici anni fa volevo uccidermi L'attore per uscire dalla lunga crisi ha avuto bisogno dell'aiuto di un medico e del forte sostegno dei farmaci Nino Manfredi; sedici anni fa volevo uccidermi «Ero all'apice del successo, ma con la felicità arrivò anche la depressione» ROMA. E' vero. Nino Manfredi una volta nella sua vita ha pensato di suicidarsi. Gli è capitato molti anni fa, nel '74, il momento di maggiore successo della sua carriera, l'anno in cui uno dietro l'altro aveva interpretato «Pane e cioccolata» di Brasati e «C'eravamo tanto amati» di Scola, l'anno nel quale ai riconoscimenti del pubblico si erano aggiunti quelli della critica, l'anno del festival di Cannes. «Evidentemente per me la felicità raggiunta è stata troppa: sono caduto in depressione». Nino Manfredi per molti mesi allora è stato malissimo: non dormiva e quando lo faceva aveva incubi, mangiava poco e male, scoppiava in pianti frequenti. Per uscire da questa prostrazione fisica e psicologica confessa di aver avuto bisogno dell'appoggio di un medico, di un forte sostegno di farmaci, e so¬ prattutto dell'affetto costante e paziente di sua moglie Erminia. Il suicidio non lo ha mai tentato, però più volte in quel periodo ha pensato di togliersi la vita per farla finita con tutta quella sofferenza. Adesso che è arrivato a quasi settantanni nel pieno della popolarità, in scena tutte le sere al teatro Eliseo di Roma con Viva gli sposi, lo spettacolo scritto e interpretato da lui con Giovanna Ralli, Manfredi ne parla con serenità. Negare solo perché è un personaggio o peggio perché è un attore che alla gente ha regalato principalmente risate gli pare sciocco e inutile. Specularci sopra però gli sembra meschino e morboso. Fino ad oggi, racconta, non ne aveva parlato perché, a raccontarla così come l'aveva vissuta, la storia poteva apparire incredibile. Il motivo della spaventosa depressione nella quale è caduto quando era al verti¬ ce del suo personale successo, è legato infatti a una tremenda esperienza vissuta durante l'adolescenza: tre anni passati in un sanatorio tra la vita e la morte per una tubercolosi gravissima che lo aveva colpito a quindici anni. «Lo psicologo che mi ha aiutato a superare la mia disperazione mi ha spiega to che a generarla erano stati i miei inconsapevoli sensi di colpa nei confronti dei tanti ragazzi tubercolotici come me che avevo visto morire. A differenza di loro io non solo ero riuscito a vincere la malattia, a conquistarmi un lavoro, una casa, una famiglia ma ero perfino diventato uno dei maggiori nomi dello spettacolo italiano. Troppo. Troppo per me. Troppo per poterlo sopportare senza avvertire l'ingiustizia insensata dell'esistenza. Troppo per non provar la voglia di espiare col dolore la colpa di avercela fatta». Nino Manfredi, infatti, come molti uomini colpiti dalla tubercolosi prima della scoperta della penicillina, per i medici che lo avevano in cura allora era destinato a vivere poco: fino a venti, ventuno anni al massimo. Il suo fisico forte gli aveva permesso di lasciare l'ospedale Forlanini ma il dottore non gli aveva dato grandi speranze: «Se va bene — aveva detto — avrai ancora quattro o cinque anni davanti a te». Attraversare una esperienza come questa, confessa Manfredi, lascia un segno in eterno: si è sempre dei sopravvissuti indebitamente scampati a un pericolo che non ha risparmiato i propri compagni. Anche la morte assume una prospettiva diversa: tremenda e giocosa al tempo stesso. Alla tisi, comunque, Manfredi ammette di dovere molto: una sensibilità affinata dalla sofferenza, una maggiore capacità di introspezione, una sincerità di pensieri e di toni più completa. Soprattutto è grazie alla tubercolosi che Manfredi ottenne dal padre il permesso di iscriversi all'Accademia d'arte drammatica dopo aver preso una superflua ma irrinunciabile laurea in giurisprudenza. «Per imparare a recitare avevo nascosto di essere malato. Una volta al mese, in gran segreto, andavo all'ospedale Forlanini per sottopormi a uno pneumotorace pensando che tutto sarebbe stato un gioco per passare il tempo che mi separava dalla fine». E ancora adesso, racconta, qualche notte gli capita di non prender sonno: pensa ai giorni trascorsi in ospedale e ai ragazzi, tanti, tutti giovani come lui, morti per uno sbocco di sangue più violento degli altri. Ma ha imparato con l'età a controllare le sue emozioni. Simonetta Robìony

Persone citate: Giovanna Ralli, Nino Manfredi, Scola, Simonetta Robìony

Luoghi citati: Cannes, Roma