Sparite migliaia di sentenze

Sparite migliaia di sentenze Sparite migliaia di sentenze Indagini senza colpevoli al tribunale di Genova GENOVA. Raccoglitori contenenti sentenze pronunciate dal 1975 al 1979 (alcune migliaia) sono scomparsi dagli archivi del Palazzo di giustizia di Genova. La scoperta è avvenuta qualche tempo fa, ma solo ora se n'è venuti a conoscenza: sarebbe stato un noto studio legale genovese, che aveva chiesto copia di un giudizio, a far scoprire il clamoroso furto. Accertata la scomparsa dei raccoglitori, fu aperta un'inchiesta e il primo presidente della corte d'appello segnalò il fatto al ministro di Grazia e Giustizia, mentre l'indagine non riusciva a trovare elementi che conducessero ai colpevoli, non solo, ma nemmeno allo scopo di chi aveva sottratto le sentenze. Furto su commissione? E' una delle ipotesi, per quanto azzardata. Qualcuno potrebbe aver fatto sparire sentenze importanti, portando via molti altri raccoglitori in modo da non essere identificato attraverso l'intestazione del dossier. Gran parte delle sentenze riguardano a da esalazioni di ossid o processi di tribunale, ma nulla è stato trovato. E forse nulla si troverà mai. Infatti i gip (giudici per l'indagine preliminare, ex giudici istruttori) hanno chiuso il caso con un decreto di «infondatezza della notizia di reato». Pare non ci fosse altro da fare, vista l'inutilità di ogni indagine e, soprattutto, il tempo trascorso tra la sparizione delle sentenze e la scopetta. Tutti i fascicoli mancanti potrebbero essere ricostruiti, ma occorrerebbero anni. Si è data la caccia a una «talpa», si è arrivati a costruire un ventaglio di sospettati, ma su nessuno è emerso alcun concreto indizio. Chi aveva interesse a far sparire sentenze? Si parla di processi di mafia e di 'ndrangheta, di traffico di droga, ma lo scandalo praticamente finisce nel momento stesso in cui viene rivelato: con l'archiviazione. Ci si chiede come sia possibile che in un Palazzo di giustizia, che ha posti fissi di polizia, possa sparire materiale tanto importante in così grande quan¬ di carbonio dello scald tità. Ma non c'è da stupirsi troppo, perché vi sono precedenti. Il 20 ottobre scorso vi fu un'incursione nella camera di consiglio della sezione del tribunale penale: e non in piena notte, ma mentre le udienze erano in corso e decine di persone si aggiravano nei corridoi. Qualcuno, usando una chiave falsa, s'introdusse nella stanza frugando tra fascicoli di processi importanti; furono spostati mobili, una macchina per scrivere fu gettata di traverso a un tavolo. I carabinieri rilevarono molte impronte digitali che non portarono però ad alcun risultato. E anche qui le domande. Il gesto di un pazzoide? Una intimidazione di stampo mafioso? Un interesse ben preciso? Più probabilmente la ricerca di un documento importante per qualche imputato «di livello». Pochi mesi dopo l'inaugurazione del nuovo Palazzo di giustizia qualcuno rubò quadri di ingente valore addirittura nello studio di un alto magistrato al dodicesimo piano. E ancora: razzia in locali dov'erano custoditi reperti giudiziari e corpi di reato (anche preziosi, armi, stupefacenti). Forse il massimo fu raggiunto una domenica mattina quando i ladri che si erano nascosti probabilmente in una toilette dell'undicesimo piano depredarono una pesante cassaforte facendone saltare la porta con esplosivo: lo scoppio non venne avvertito, sia perché era giorno festivo e gli uffici erano semideserti, sia perché i ladri prima di fare esplodere la carica avevano avuto cura di fasciare la cassaforte con un tappeto. E sono stati ancora registrati furti di microfoni nelle aule della corte d'assise, sono state asportate ante di un armadio nel quale erano custodite decine di pratiche. Da uno schedario blindato dell'undicesimo piano furono sottratti due milioni in contanti: e, in quell'occasione, i ladri si concessero di brindare con una bottiglia di whisky trovata in uno stipetto. Guido Coppini Tre carabinieri furono dabagno difettoso