Nel Kosovo ora regna il terrore

Nel Kosovo ora regna il terrore Nel Kosovo ora regna il terrore Nessuno parla ma aumenta Iodio verso il «nemico» serbo PRISTINA DAL NOSTRO INVIATO La paura, la nebbia e il fango attanagliano la cittadina di Oharovac nel Kosovo (21 mila abitanti, 56 mila con il circondario) dove sabato pomeriggio la milizia ha sparato a raffica su una folla di albanesi, facendo un massacro. A Pristina, la capitale della regione, nella sede della «Lega democratica» di opposizione, dicevano che i morti sono nove (più due a Pec), ma sul posto quei pochi che sono disposti a parlare — un meccanico, un medico, un infermiere — dicono che si tratta di esagerazioni, le persone uccise sono solo cinque e i feriti nove. I loro dati sembrano attendibili, sono precisi, con i nomi e l'età delle vittime. Sul luogo della strage, a ventiquattro ore di distanza, non è possibile ricostruire la verità. Chi ha visto è stato ammonito e ha la bocca cucita perché ci sono molti agenti che ascoltano. L'unica cosa certa è che i reparti speciali, appostati a un bivio in cima a una rampa, hanno fatto fuoco quando da Prizren si è avvicinato un pullman della società Kosovotrans. Dicono le fonti ufficiali che una folla minacciosa stava avanzando verso Oharovac per dare manforte a migliaia di persone che si erano assembrate con grida ostili. Da questa folla, che procedeva a piedi fra le pozzanghere, sarebbero partiti colpi di fucile verso la milizia che bloccava la strada. Allora, soltanto allora — dice Belgrado —, la milizia ha risposto col fuoco. Del tutto diverso il racconto dei testimoni albanesi. Ammettono sì che, violando il divieto di assembramento in vigore con la legge marziale, alcune migliaia di persone percorrevano le vie di Oharovac gridando «.democrazia», «autonomia» e «libertà» e che la milizia, appoggiata da un carro blindato, aveva più volte disperso i dimostranti. Ma nel centro non è avvenuto nulla di grave. In cima alla rampa, invece, in aperta campagna, i reparti speciali hanno sparato «senza motivo» quando hanno visto arrivare l'autobus pieno di dimostranti che venivano a dare aiuto a quelli della città. «Giuro — dice un meccanico cinquantenne, Musa, l'unico che ha avuto il coraggio di dire il proprio nome — che la folla era inerme, che non è stato lanciato neppure un sasso. Quando hanno visto l'autobus gli agenti lo hanno bucato di colpi feren¬ do diversi passeggeri e hanno preso di mira la gente a piedi. Forse hanno avuto paura, proprio non lo so. Erano nuovi, appena arrivati dalla Serbia». La tesi del panico che avrebbe preso i miliziani viene respinta dalla «Lega democratica» a Pristina. A confutarla è il fatto che sabato i reparti speciali hanno sparato «contemporaneamente» anche in altre località e che a Pec vi sono stati altri due morti. Era la prima volta che accadeva dopo il massacro del marzo dell'anno scorso, quando vi furono venticinque morti dopo cruenti scontri che hanno poi indotto il governo a promulgare la legge marziale. La contemporaneità degli interventi con armi da fuoco prova semmai — secondo gli autonomisti albanesi — che Belgrado aveva dato l'ordine di sparare. «E' Belgrado, non la milizia, che ha perso la testa — dice Jusuf Buxhovi della Lega Democratica —. Con la violenza il partito bolscevico cerca di prolungare la sua vita, dopo la sconfitta subita dai serbi al Congresso straordinario della Lega comunista jugoslava a Belgrado. I serbi temono di venire abbandonati dalle altre Repubbliche a causa del Koso¬ vo e di rimanere soli». «Tempi brutti si preparano per il Kosovo — dice Buxhovi —, la Serbia è nervosa». Difficile e praticamente senza via di uscita è invero la situazione del «Vojvoda rosso» servo Slobodan Milosevic, il nemico numero uno degli autonomisti albanesi del Kosovo (e degli sloveni). Se adotta misure repressive si isola ulteriormente e rompe del tutto quel poco che ancora rimane della Lega comunista jugoslava, se cede viene abbandonato dai suoi seguaci, i nazionalisti serbi e lascia il terreno ai supemazionalisti del fanatico Vuk Draskovic. «Il Kosovo non è ancora l'Azerbaigian, ma potrebbe diventarlo — constatava iersera amaramente un poeta albanese che vuole rimanere anonimo —. Certo è che la nostra regione è l'unico posto nel quale la voglia di libertà e di democrazia viene repressa con le armi». Si teme che oggi possa essere una giornata di incidenti. A Titova Mitrovica riprende il processo contro l'ex capo del partito comunista del Kosovo, Azem Vlasi, in carcere perché accusato di attività controrivoluzionaria. Tito Sansa