La via della politica dopo le ideologie di Gianni Vattimo
La via della politica dopo le ideologie NUOVO MOVIMENTO La via della politica dopo le ideologie QUALCHE piccola aggiunta alle tante cose che già si sono dette in questi giorni sulla protesta studentesca e il «Movimento del '90», il suo senso, i limiti, i possibili sviluppi. E' inutile ripetere che gli studenti che occupano, più o meno simbolicamente, facoltà, uffici, rettorati, hanno ragioni da vendere. Le condizioni dello studio e della ricerca all'università sono oggi assai peggiori di quelle su cui si mobilitarono i contestatori del '68; e solo perché nel frattempo è venuta meno la presa delle grandi ideologie, e si sono modificate le situazioni internazionali che allora avevano un peso determinante (Vietnam, Cuba, Cina...), tutti questi sacrosanti motivi di rivolta non si sono concretati finora in iniziative unitarie di ■ protesta e trasformazione. Se le cose vanno avanti come sono cominciate, e gli studenti riescono a non farsi incantare da alcuni residuati leninisti di altre stagioni contestatarie che — almeno in alcune sedi — si sono immediatamente mobilitati per mettere un pesante cappello di ideologia alla protesta, il «Movimento del '90» potrebbe essere davvero il primo a nascere in epoca post-ideologica, mostrando che si può intraprendere una iniziativa di trasformazione, o più semplicemente che si può «fare politica», anche senza muovere da un piano globale di grande filosofia pa- ' lingenetica della stòria. Anche chi guarda con simpatia e speranza a questo Movimento dovrebbe tener presente che la sua novità principale, probabilmente, è proprio questa: e dunque non cominciare subito a lagnarsi perché gli obiettivi sono troppo terra terra, i discorsi troppo poveri, la stessa leadership assai incerta. Sarà allora solo un residuo di ideologismo anche la parola d'ordine del «No alla privatizzazione» che ha tanto peso nel rifiuto studentesco della legge Ruberti? Può darsi che ci sia anche questa componente; ma forse è eccessivo vedervi, come vuole qualcuno, un'espressione della tradizionale arretratezza «statalista» — e cioè clientelare, assistenziale — della piccola borghesia italiana, che sogna solo l'impiego pubblico. E' vero che i rischi di eccessiva presenza dei privati nell'università sono per ora molto remoti; e che vi si può porre rimedio con una serie di modifiche al disegno di legge — che prevedano per esempio una più netta indi- I pendenza degli organismi I universitari nell'uso dei fondi di ricerca provenienti da privati, o la ridistribuzione di parte di essi alle facoltà, corsi, dipartimenti, come quelli umanistici, meno direttamente appetibili per la committenza privata. Ma nella parola d'ordine della difesa contro l'industria c'è anche un senso più condivisibile, che non bisognerebbe lasciarsi sfuggire: gli studenti sembrano giustamente preoccupati del rischio che, proprio nel momento della caduta delle ideologie, la politica, l'amministrazione pubblica, dunque anche quella istituzione eminentemente «politica» che è l'università, si metta semplicemente a rimorchio del processo produttivo, e provi la sua unica residua razionalità nel servire agli interessi della produzione e del mercato. E' anche questo un aspetto del bisogno di trovare una via della politica dopo le ideologie, senza abdicare a ogni autonomia a favore di un puro e semplice appiattimento del politico sull'economico. A questo problema, à ben vedere, si riallaccia anche un'altra questione del tutto aperta, e di difficile soluzione per il movimento studentesco: fino a che punto si spingerà il rifiuto dei rapporti con ì partiti? Nel '68, e più ancora nel '77, le mediazioni politiche istituzionali erano respinte dal punto di vista di una ideologia della rivoluzione, una specie di elementare fede nel Soviet, nei collettivi di base che rifiutavano ogni struttura di rappresentanza. Oggi, la diffidenza nei confronti dei partiti è motivata quasi unicamente da (per lo più giustificate) ragioni di moralità: non si vuole ricadere nella logica dei giochi di potere, dei compromessi, alla fine delle tangenti. Benissimo: però, se, come pare, la fede nei Soviet (e non solo per la nostra esperienza) è ormai tramontata, e in generale il Movimento non si pensa come l'inizio di una rivoluzione che mette in discussione anche i modi di funzionamento basilari della nostra democrazia, la questione della mediazione politica, dei modi di far valere, nelle sedi decisionali di questo Stato, le esigenze che stanno alla base della protesta, si dovrà porre. Continuare a pensare che tutti i partiti sono uguali, e ugualmente nemici della mitica purezza del Movimento, potrebbe solo aprire la strada alla ripetizione di esperienze negative già fatte 20 anni fa; o, nel caso migliore, fare il gioco di chi non vuole cambiare niente. Gianni Vattimo mo ;
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