Tensione a San Luca davanti alle bare dei quattro rapitori

Tensione a San Luca davanti alle bare dei quattro rapitori Vietata la cerimonia in chiesa Tensione a San Luca davanti alle bare dei quattro rapitori SAN LUCA DAL NOSTRO INVIATO Il silenzio sordo, ostinatamente voluto da tutto il paese sin dalla notte precedente, viene rotto dalla voce stridula di una donna. Con la cadenza di un coro tragico, avanzando verso l'entrata del piccolo camposanto di San Luca, impreca: «Focu, frati miu». «Che dolore, fratello», ripete la giovane. E' la sorella di Sebastiano Giampaolo, ucciso in Lombardia dai carabinieri mentre cercava di rapire Antonella Dellea. Dietro quella piccola figura ammantata di nero c'è tutto San Luca, inerpicatosi a piedi per il budello asfaltato che conduce al santuario della Madonna di Polsi. Ci sono anche i parenti degli altri due uccisi, Sebastiano Stragio e Salvatore Romeo. Le bare di mogano sommerse da cuscini di garofani rossi e rosa sono allineate nella cappella, tanto piccola da contenere a stento i familiari. La quarta salma, quella di Giuseppe Ietto, ha già preso la strada per Natile. Anche lì non ci sarà funerale nella chiesa madre, ma una breve cerimonia. L'ordine del questore è stato preciso: vietati corteo ed ufficialità. E San Luca ubbidisce. I timori che hanno scandito l'attesa l'attesa di una notte e della mattina di ieri per fortuna si rivelano infondati. Non c'è prova di forza; il paese ragiona anche se resta immerso in un clima teso, palpabile in quel silenzio irreale, dove si sente solo il fruscio degli ulivi della vallata del Bonamico ed il gracchiare sommesso delle radio di polizia e carabinieri. Questi ultimi dislocati in auto, più lontani, per evitare il contatto con la folla. II compito di fare rispettare l'ordinanza del questore è interamente affidato alla polizia. Ma una divisa vale l'altra, agli occhi di chi vuo! gridare il proprio dolore cieco. Così la madre di Giampaolo si batte il petto: «Assassini, me l'ammazzastivu»; sfida lo sguardo fisso degli agenti mentre ripete: «Una strage avete fatto». Ma dura un attimo, il tempo che mani pietose la trascinino verso la cappella dove don Pino, il parroco, si accinge a dire messa. Grida la donna mentre cammina; non risparmia i cronisti e gli operatori della televisione: «Godetevi lo spettacolo, siete contenti?». Poi riprende il lamento e rivolgendosi alla figlia: «Voglio che.mi vedano in televisione». Qualche passo più avanti, all'entrata della stanza con l'altare, sviene la suocera di Romeo. La prendono in braccio, le danno aria, cercano di sottrarla all'abbraccio soffocante della folla. Il pianto delle donne ora copre il brusio delle preghiere. La voce di don Pino Strangio si perde nello spazio aperto della vallata che anticipa all'orizzonte un tutt'uno di mare e cielo. Uomini accigliati trasportano il corpo esanime, braccia di giovani si agitano per rendere inoffensive le telecamere. Non è più ragazzo, ma non è ancora anziano il contadino che, a denti stretti, senza troppo scomporsi, sibila verso la forza pubblica: «Noi abbiamo il dolore, voi avete gioia». Un ragazzino, gli occhi corrucciati, il volto pallido di tensione, si rivolge sprezzante ad un fotografo: «Ancora scatti?». Ma il buon senso prevale di nuovo. Merito di tutti, anche della gente di San Luca che non si fa sopraffare dal malanimo. Suona come il tentativo di riconoscere colpe e responsabilità la voce lamentosa di una ragazza che ripete ossessivamente: «E' la guerra, la guerra. La pace l'abbiamo persa». In queste parole la contraddizione di chi, agitando il proprio dolore, dimentica forse che la pace è persa nello stesso momento in cui si sceglie la via della sopraffazione e della illegalità. Don Pino crede nel sentimento della pietà. Vince la ritrosia dettata dal trovarsi di fronte alle bare di uomini persi anche dalla loro violenza e conforta la comunità di San Luca, ormai tutta in piedi sulla piazzola, mossa da tacita intesa che consente un lutto cittadino mai proclamato. «Il vostro dolore — dice il parroco — solo voi lo potete capire. Noi siamo solidali con voi, con l'arma onnipotente di Dio che è la preghiera». Piangono tutti, anche uomini che sembrano macigni. Cosi come sono venuti, silenziosi e scuri, i sanluchesi cominciano la discesa verso il paese. La parola d'ordine è di lasciare solo i parenti, a pregare nella cappella. L'invito viene rivolto ai cronisti. La piazzetta si spopola, anche per un altro motivo. Il fratello di Giampaolo, Salvatore, in carcere per il sequestro Brusin, ha ottenuto il permesso di venire a dare l'ultimo saluto. La folla, però, impedirebbe la traduzione del detenuto. Motivi di sicurezza impongono un po' più di tranquillità. Come per incanto il cimitero ridiventa un deserto. Il cellulare giunge mentre dalla strada di Polsi scendono le camionette dei para. Riprende il quotidiano battage sull'Aspromonte. Stavolta qualcosa è stato trovato. Si parla di un covo, in una stradina interpoderale: un covo utilizzato di recente. Forse vi sono stati tenuti ostaggi: c'erano due letti, catene, cappucci e viveri. Una tenda canadese mai utilizzata. E una rastrelliera piena di armi. Fucili, mitragliette Mab, una Maschine-Pistole. Si, è proprio qualcosa di simile alla guerra: da una parte lo Stato, l'esercito legale, dall'altra un gruppo di criminali. La posta in gioco è altissima, forse va oltre la vita di Cesare Casella e degli altri prigionieri dell'Aspromonte. Francesco La Licata La bara di Salvatore Romeo portata a braccia nel cimitero di San Luca

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