L'UTOPIA DI BUBER: UNA TERRA DI PACE di Cinzia Romani

L'UTOPIA DI BUBER: UNA TERRA DI PACE L'UTOPIA DI BUBER: UNA TERRA DI PACE SI può onorare il proprio Dio come Cristo comanda? Martin Buber, figura centrale dell'ebraismo nel nostro secolo, dice di sì. E lo afferma ne La regalità di Dio, primo libro d'una trilogia biblica dove l'interesse teologico è preponderante. Trattare, infatti, della «regalità» di Dio, come poi lo fa Buber, che parte comunque dal principio dialogico dell'Io e Tu, significa non occuparsi della ricerca stòrico-critica, per vedere in fondo alla storia delle religioni. E in questo volume, pubblicato a Berlino nel '32 dall'editrice Schocken invisa al nazismo, i nomi dei maggiori biblisti e orientalisti dell'epoca ricorrono spesso. Il principio dialogico allora viene seguito anche sul terreno scientifico da Martin Buber, che non trascura nessun autore. E qui si addensa il grumo dei pensieri buberiani, quello fondamentale; poiché storia e teologia dialogano, pure Dio entra in dialogo con l'umanità, per il tramite del popolo suo. Il popolo d'Israele. L'infaticabile Buber, nato a Vienna nel 1878 e morto a Gerusalemme nel 1965, ha molto contribuito alla causa di Sion, ma proclamarlo «ardente sionista» come fa Alberto Soggin nella sua fin troppo concisa prefazione, appare francamente eccessivo. 11 filosofo viennese, in realtà, ha dimostrato nella sua vita operosa di studi e ricerche, una forte inclinazione per la riflessione religiosa, più che per quella politica. E un'attenzione amorosa, oggi estinta, per la parola, per la vox humana. Vale la pena ricordare la titanica impresa di Buber, tradurre cioè la Bibbia in tedesco, calcando nella lingua d'arrivo suoni e radici dell'originale ebraico. Un lavoro utile e geniale, come la raccolta dei testi mistici di ogni tempo e paese, quelle Confessioni estatiche così note e care a Jorge Luis Borges e a Robert Musil. Mentre I racconti dei Chassidim svelano il Buber narratore, Mose e II principio dialogico esistono a dimostrare che .il giardino più coltivato da uno deLmaggiori pensatori della nostra epoca è stato quello della parola, dell'Utopia. Così quando l'autore qui accenna alla Sovranità di Dio, quando parla di «teocrazia primitiva», quando esprime il concetto di «alleanza regia», che unisce Dio, re, terra e popolo, non indica necessariamente l'istituto terreno di Israele. Senz'altro lo jihud è entrato di prepotenza nella storia, le pagine dei giornali grondano di guerra. Ma Buber non aveva in mente lo Stato ebrajeo in armi per l'affermazione della sua teocrazia. Basta leggere con attenzione il capitolo IV de La regalità di Dio, dove s'insiste sulle «rilevanti differenze di significato» dell'epiteto divino malk. «Si chiama Malk il dio che accompagna» e ogni popolo può avere un malk, che non ha che fare con esso. Come a dire: non esiste terra locale o cielo locale dove l'uomo debba esperire il proprio dio prediletto. E nel capitolo più denso di un libro assai complesso si narra di luoghi fecondati da effusioni d'acqua corrente, di insediamenti palmirenà di capanne siriache, di stuporosi prodigi compiuti da demoni nomadi. Su tutto aleggia lo spirito degli antenati, inteso come abilità di un gruppo legato da vincoli biologici. Si tratta della «forza che trascende e sorprende la comunità... che la spinge ad agire in modo nuovo e insolito, ad aprirsi il cammino inesplorato nella terra sperata o promessa raccogliendo di là dalle faide interne tutti i clan in una tribù concorde, tutte le tribù in un popolo unito». E' un passo da meditare, perché il «popolo unito» non rimanda in assoluto al popolo d'Israele. Così JHWH è il Dio dei popoli, e precisamente: non il Dio venerato dai popoli, ma i! Dio che ha condotto in una «buona» terra tutti i popoli nomadi, al pari di Israele. La tenda, infatti, l'arca, che è il trono ove Dio «siede» già all'epoca del deserto esprime «l'indipendenza di Dio da qualsiasi luogo». Dio si muove, raggiunge gli uomini che ha eletto in terre lontane, li va a prendere, li accompagna, li guida. E nel capitolo V l'autore cita il dialogo del roveto tra Mose e JHWH per dimostrare una cosa soltanto: che per la tradizione biblica «il darsi a conoscere (Esodo 6, 3) di JHWH a Mose, ossia la rivelazione della sua essenza a partire dal suo nome ("Io sono colui che sono"), significa la rivelazione della sua essenza di Dio melekhm. Stiamo sempre parlando, quindi, di un Dio-guida mobile e di una storia pre-statale di Israele. Non a caso Salomone, nella frase con cui chiude il discorso del tempio (I Re 8, 61 ) non chiama l'uomo, o il popolo, a essere integro con JHWH, ma invita il cuore a essere concorde, «pacificato» con JHWH. A una prima lettura il libro risulta impervio, soprattutto per i continui spostamenti dal piano della storia a quello dell'escatologia. Però si può leggere l'opera, tra l'altro molto ben tradotta da Michele Fiorillo, nella prospettiva sempre allettante dell'Utopia: in tutto il mondo potrebbero concretizzarsi gli ideali che stanno alla base di Israele. Ma non di Israele soltanto. Cinzia Romani Martin Buber La regalità di Dio Marietti pp. 216. L. 32.000 // teolo/*o Marlin Buffer

Luoghi citati: Berlino, Gerusalemme, Israele, Vienna