Un uomo qualunque nel tunnel della giustizia di Vincenzo Tessandori

Un uomo qualunque nel tunnel della giustizia In un libro del penalista bolognese Achilie Melchionda un innocente accusato ingiustamente e quindi condannato Un uomo qualunque nel tunnel della giustizia Ricostruita la storia delprocesso a Forni imputato di terrorismo BOLOGNA. Sull'uomo qualunque, sul cittadino al di sotto di ogni sospetto, piomba un'accusa, e per lui comincia un'odissea. Anche se innocente, soprattutto se innocente. E' compito del malcapitato, o almeno lo era fino all'adozione del nuovo codice di procedura, dimostrare l'innocenza piuttosto che all'accusatore provare le imputazioni. Sfiducia diffusa nei meccanismi della giustizia, dunque, una sfiducia che è difficile considerare ingiustificata. «Il processo, un processo marcatamente inquisitorio, si bruciava in istruttoria e una volta arrivati a certe conclusioni in dibattimento non lo spostavi quasi più», osserva con amarezza mista a collera il penalista bolognese Achille Melchionda. E ora, con la riforma Vassalli? «Si tratta di un processo di tipo accusatorio, con parità di armi fra le parti. Ma è prematuro dire come andranno le cose, siamo alle prime battute». Eppure, per tentar di strappare l'uomo qualunque ai mec¬ canismi complicati e talvolta perversi della giustizia occorreva pure «fare qualcosa». Melchionda racconta una di queste battaglie giudiziarie in «Un tunnel chiamato giustizia» (Cappelli editore, Bologna). Il legale, che usa la tecnica immediata e incisiva del diario, ricorda la storia del processo contro Dante Forni, un impiegato del comune di Bologna, militante socialista con un passato remoto nei gruppi extraparlamentari: un giovanotto qualunque, con un lavoro qualunque, aspirazioni qualunque, una vita, fino a quel momento, qualunque. Una storia emblematica, semplice eppure maledettamente complessa. Il 20 dicembre 1978 è nel bel mezzo della stagione di piombo. Da tempo il giovanotto ha in affitto un appartamento in una strada vicino al tribunale. Lo adopera come laboratorio di corniciaio e, di quando in quando, la sera lo cede a qualche amico che lo usa come pied-àterre. Ma qualcuno se ne serve per altro: quando i carabinieri lo perquisiscono vi trovano tracce di riunioni e un baule con armi e documenti. Forni, che non ha mai visto né il baule né la roba, è accusato di aver organizzato un'associazione sovversiva costituita in banda armata, insomma di essere un terrorista di Prima linea. Per Forni l'incubo durerà fino al novembre 1984. Al cittadino non è ancora chiaro di esser finito in un ingranaggio micidiale. Per tirarlo fuori il professor Melchionda, che all'epoca insegna procedura penale e psichiatria forense, aiutato da un altro brillante legale, Umberto Guerini, dovrà faticare anni. Prima di accettare il mandato il difensore aveva voluto essere certo che Forni fosse innocente perché, scrive nel libro, «non sono capace di impiegare le mie energie per far assolvere un colpevole». Ma va anche oltre e dice: «Mi parrebbe di trasformarmi in un complice il giorno che riuscissi a far assolvere una persona colpevole. Per contro, sono capace di impe¬ gnarmi in processi che durano anni, come quello di Forni, quando so di battermi per un innocente». Segue fino in fondo le regole del gioco, anche nel «caso Forni», un caso politico, certo che «prima o poi la verità viene per forza a galla». «Tutto mi pare assurdo e incredibile. E ciò che massimamente mi tormenta è l'impotenza», ammette. Per il cittadino al di sotto di ogni sospetto il carcere è la prima, pare inevitabile, tappa. E la carcerazione preventiva, sottolinea Melchionda, maschera una «vera e propria anticipazione di condanna e di pena». La galera sembra un antistato. «Fino a quando un individuo è nelle braccia delle istituzioni carcerarie italiane, non può permettersi il lusso di invocare la legge dello Stato italiano!». Poi, visto che uno accusato di essere un terrorista dev'essere per forza pericoloso, .1 passo successivo è il carcere speciale, «una pagina a dir poco triste (o vergognosa) del nostro paese», scrive Melchionda. Ora aggiun¬ ge: «Si è trattato di una necessaria violenza fatta alla legalità. Forse è stato utile per contenere eccessi, ma se n'è abusato con i detenuti in attesa di giudizio». Nel labirinto di un processo si può incontrare di tutto, anche un ufficiale dei carabinieri che «costruisce» una prova per tenerti incastrato, anche un giudice che non cambia idea neppure di fronte all'evidenza, anche un pentito che ti accusa perché così gli hanno suggerito di fare. Osserva, duro, il legale: «Certo, i pentiti sono stati utili per lo smantellamento dei gruppi terroristici. E non si può tacere che di essi è stato fatto un uso troppo disinvolto, disinibito, bastava che qualcuno parlasse e l'inchiesta prendeva un indirizzo preciso. Almeno fino alla sentenza Carnevale». Dal giorno sciagurato della strage alla stazione Melchionda è patrono di parte civile per le famiglie delle vittime Del collegio ha fatto parto anche l'avvocato Roberto Montorzi dimessosi in modo clamoroso, l'e¬ state scorsa, dopo un colloquio con Licio Gelli, maestro poco venerabile della loggia P2. Anche Melchionda era massone, dice, e con altri fu cacciato dalla loggia «Giosuè Carducci» perché aveva chiesto «ragione di quanto accadeva nella P2». Sull'affaire Melchionda tace «perché faccio parte del consiglio dell'ordine. E' vero, con Montorzi sono stato a contatto di gomito, fin dai tempi dell'Italicus. Mi è parso un avvocato molto impegnato, molto preparato sugli atti». Sotto un profilo pratico la rinuncia di Montorzi ha creato al processo di appello per la strage una serie di problemi. Più il tempo passa e più la verità, sia pure quella particolare specie di verità chiamata «processuale», sul massacro alla stazione di Bologna Centrale pare allontanarsi. Giovedì 18 alla corte d'assise di appello saranno ascoltati i responsabili dei servizi segreti di quegli anni: un rito inutile? Vedremo. Vincenzo Tessandori

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