«Basta pc, siamo eredi di Gengis Khan»

«Basta pc, siamo eredi di Gengis Khan» Dopo aver fatto pace con Cina e Usa, il nazionalismo risveglia un Paese dimenticato «Basta pc, siamo eredi di Gengis Khan» Feudo di Mosca per 66 anni, anche la Mongolia si ribella In Mongolia, perestrojka si pronuncia «shinechiel». Significa rinnovamento, ma è soprattutto una prova di coraggio. Per 66 anni, gli eredi di Gengis Khan hanno vissuto riparati dallo spesso ombrello sovietico, all'ombra del quale hanno riposto le «yurte», le tende dei nomadi, per abitare grigi palazzi di fattura russa, ed hanno fatto sfollare dalle strade buoi, yak, e cavalli per guidare auto «Volta» e camion «Kamat». Ulan Bator è stata, di fatto, per oltre mezzo secolo, la capitale della sedicesima Repubblica dell'Urss. La prova di coraggio consiste nel rimettere in movimento gli arti anchilosati di un'economia e di un sistema politico abituati ad eseguire alla lettera i diktat di Mosca. Il guscio in cui si cullava la Mongolia si ruppe il 28 luglio del 1986, quando Michail Gorbaciov parlò della «questione orientale» a Vladivostok. «Il nostro contingente militare in Mongolia sarà ridotto», disse il capo del Cremlino, pagando il prezzo per un progressivo riavvicinamento a Pechino. Jambyn Batmunh, segretario generale del pc mongolo, era in Crimea. Volò immediatamente a Mosca, implorò che l'ombrello non venisse chiuso, ma strappò soltanto qualche anno di tranquillità per preparare il Paese all'indipendenza. Da allora, la Mongolia ha cambiato rotta, liberando energie politiche compresse dal socialismo pilotato. I primi tre decenni dello Stato comunista furono l'epoca del terrore. Il maresciallo Horlughyn Shoybalsan, ombra di Stalin sul deserto dei Gobi, mise a ferro e fuoco il Paese: i templi furono rasi al suolo e i lama buddisti assassinati, la grafìa mongola fu sostituita dai caratteri cirillici e Gengis Khan relegato in soffitta. Seguirono trent'anni di stagnazione. Un interprete uffi¬ ciale delle frasi sussurrate a Mosca, Yumjaagiyn Tsedenbal, da Ulan Bator indicava la strada ai 50 mila soldati russi che si avviavano a presidiare la frontiera con la Cina. Quando Gorbaciov comunicò a Batmunh che la Mongolia sarebbe stata sacrificata agli interessi della distensione, il leader mongolo, suo malgrado, riscoprì l'arte della diplomazia e firmò, nel 1988, un trattato per la soluzione pacifica delle dispute territoriali con la Cina. Assieme ai soldati, Mosca cominciava però a richiamare una parte dei tecnici che favorirono l'urbanizzazione del Paese e che avviarono lo sfruttamento delle miniere mongole. Batmunh diede mandato al rappresentante presso l'Onu di riallacciare i contatti con gli Usa e cancellò dalla Costituzione l'articolo che rendeva fuorilegge le joint ventures. Ma alla perestrojka è difficile mettere • le briglie. All'inizio dello scorso anno gli studenti sono scesi in piazza chiedendo il rinnovamento del partito. La polizia non ha reagito. Il primo maggio è stata la prova generale del nuovo corso: piazza Suhbataat non è stata invasa dalla tradizionale parata militare. Il pc ha organizzato un grande carnevale con clowns e barbecues. I mongoli hanno ballato, mangiato e sfogato la loro frustrazione imbrattando di vernice le statue di Stalin e di Shoybalsan. Nei giorni scorsi le piazze si sono di nuovo riempite e un gruppo di opposizione, l'Unione democratica, è uscita allo scoperto. Il vento che tormenta Ulan Bator non soffia più dalla Siberia, promana dalle viscere della Mongolia. In nome di Gengis Khan, i nuovi mongoli vogliono dimenticare l'epoca in cui lustravano le scarpe ai leader del Cremlino. Pier Luigi Vercesi