Una notte in Somalia, con i guerriglieri

Una notte in Somalia, con i guerriglieri Tra morte e devastazione continua la guerra degli Isaak contro l'«esercito dei facoceri» di Barre Una notte in Somalia, con i guerriglieri Hargeisa, l'antica capitale del Nord, sembra un cimitero HARGEISA NOSTRO SERVIZIO La notte è percorsa da un lampo bianco. La nostra colonna si ferma. Non più un gesto, né un passo. In qualche frazione di secondo, una luce violenta squarcia il fianco della montagna, nascosta al di sopra della città come un animale in agguato. Poi, nell'oscurità echeggia un colpo simile a un gong: eternità di un istante, si. ha l'impressione che le stelle stiano per staccarsi dal cielo. Ma non è che il colpo di un mortaio. Il rumore banale della guerra alla quale si abbandonano, giorno dopo giorno, i guerriglieri del Movimento nazionale somalo, l'Mns, e le truppe governative del presidente Siad Barre. Dalla fine di maggio dell'88, dopo i primi colpi di fucile e le prime bombe che hanno segnato quella che qui viene chiamata «la battaglia d'Hargeisa», l'antica capitale del Nord della Somalia, feudo del clan ribelle degli Isaak non è che una distesa di rovine, aspramente disputate. «Sono i nostri che hanno sparato», dice qualcuno della colonna. Bisognerà attendere quasi due ore, al riparo di un caseggiato del quartiere Nord, prima che i guerriglieri, inviati in avanscoperta verso il centro della capitale, ritornino per darci il segnale di via libera. Queste precauzioni sono, sembra, inusuali: quando sono soli, i combattenti dell'Mns dicono di poter entrare a Hargeisa come il coltello nel burro. Poco importa: il nostro arrivo di notte, il tiro del mortaio e questo nascondiglio forzato in mezzo alle rovine testimoniano l'incertezza che regna ancora qui. Pretendere che Hargeisa sia stata «liberata», come ha sostenuto la radio dei ribelli all'inizio di dicèmbre, non è allora che una pura e semplice menzogna? La notizia, diffusa sulle frequenze clandestine dell'Mns, ha fatto il giro dei guerriglieri, seminando con la rapidità di un fulmine questa falsa speranza tra i «mujaheddin», i «soldati di Dio», che sono ansiosi di battere «l'esercito dei facoceri», come vengono soprannominate le truppe di Siad Barre. E' vero, comunque, che l'offensiva sembra essere stata sul punto di riuscire. Secondo il responsabile militare del settore di Hargeisa, il comandante Mohammed Ahmed Ibrahim, «numerose zone della città» sono ormai sotto il controllo dei guerriglieri. Il quartier generale dell'esercito governativo e l'aeroporto lo sono stati «per breve tempo», prima che i ribelli decidessero, per ragioni tattiche, di ritirarsi. E' forse questa effimera vittoria che può spiegare il lapsus della radio dell'Mns? Il risveglio, in ogni caso, deve essere stato amaro: l'attacco di dicembre avrebbe provocato alcune centinaia di molti, di cui «circa novanta tra le file dell'Mns». Una tale carneficina per niente? No di certo. «Noi giochiamo due «arte per volta: la carta militare e quella del negoziato», spiega il comandante Ibràhim. Questa lenta opera di infiltrazione all'interno del campo nemico avrebbe anche permesso di catturare «venticinque ufficiali e quasi millecento soldati», che avrebbero scelto di ab¬ bandonare Hargeisa per unirsi alle truppe ribelli. Questi uomini, si sottolinea, non sono arrivati a mani vuote. Secondo il maggiore Dahir Mohamoud Ibrahim, ex comandante della 7a brigata corazzata dell'esercito somalo, «sei carri, quattro batterie antiaeree e quindici veicoli blindati» sarebbero caduti nelle mani dell'Mns. Un bottino sorvegliato gelosamente, di cui ci verrà mostrato qualche esemplare, parcheggiato nella savana, a pochi chilometri della città. Anche se gli esponenti dell'Mns, in seno al quale gli Isaak sono la maggioranza, insistono sul fatto che le diserzioni tra i governativi sono sempre più massicce («da tre a quattrocento ufficiali e decine di migliaia di soldati di tutte le tribù» avrebbero cambiato campo in un anno e mezzo), sembra che il potente clan Hawye contribuisca in modo sempre più determinante alla crisi dell'esercito governativo. Gli Hawye formerebbero, infatti, il battaglione più numeroso tra i cosiddetti «aderenti di dicembre»: questo è quanto riconoscono gli stessi guerriglieri dell'Mns, meno sensibili dei loro capi al fatto che altri clan stiano rinforzando ) ribelli Isaak. Dato che i rapporti di forza fra le tribù costituiscono, in Somalia come ovunque in Africa, uno degli elementi-base della vita politica, non è difficile ipotizzare che la presenza degli Hawye nell'Mns sollevi inquietudini tra gli Isaak e alimenti tensioni improvvise. Ma «il nemico», anche se forse è agonizzante, colpisce ancora. Le forze regolari, che venivano già date per «indebolite» nell'88, sono riuscite, quest'anno, a realizzare il loro exploit più terribile: devastata dai bombardamenti aerei, Hargeisa la bella, la città dai verdi giardini e dalle splendide case dove le famiglie ricche Isaak venivano in villeggiatura, non è più che l'ombra di se slessa. Dei 600-700 mila abitanti originari, non ne restano che poche migliaia, rifugiatisi tra le rovine. «Vedete là, quella grande costruzione? Era l'hotel d'Oriente», indica una delle nostre guide. «Uno dei più frequentati di Hargeisa», aggiunge un'altra, con una punta di orgoglio. La facciata del palazzo si offre alla notte come sdentata: le porte e le finestre sono state distrutte. Calcinacci ingombrano l'ingresso. La visita si svolge a passi lenti, attraverso le strade de¬ serte, disseminate di detriti. La maggior parte dei tetti di Hargeisa sono stati devastati dalle bombe. Non c'è una casa intatta. Non un muro che non sia stato mitragliato. A volte, non resta che una parete, dove goffe decorazioni, fatte a mano, fanno presumere che lì ci fosse una camera. «Là c'era uno dei garage più grandi della città, sempre pieno di auto», continua il vecchio residente, imperturbabile. Si vede in effetti un ammasso di ferraglie, debolmente illuminato dalla luna. I mugolìi di cani randagi si levano poco lontano da queste rovine, ma i due uomini li ignorano: siamo arrivati in quello che fu «il quartiere degli affari», il cuore dell'antica capitale commerciale. La strada asfaltata, «la grande strada» che attraversa Hargeisa e che si dirige a Borama, da una parte, e al porto di Berbera, dall'altra, conserva le tracce dei cingoli dei blindati' governativi. Ma ormai non rimane che morte tutt'intorno. Sono rari i convogli — di viveri o di armi — che osano avventurarsi su questa strada: di giorno in giorno, la vigilanza delle truppe dell'Mns ne rende l'utilizzo sempre più difficile. Dahir Mira Jimale, 45 anni, ex ufficiale dell'esercito, ha im¬ piegato molto tempo prima di capire di essere dalla «parte sbagliata», come dice lui, e che doveva passare dall'altra parte della barricata. Ha conosciuto le bombe e le scene atroci di donne che urlavano tenendo tra le braccia bambini falciati dalle mitragliatrici e di uomini, morenti, rifiutati dall'ospedale «perché erano Isaak». Ha conosciuto quell'orrore che lo ha convinto a passare «dall'altra parte». Quella dei ribelli. «Non era più possibile capire, quando si vede un governo raccogliere le imposte tra il popolo, acquistare delle armi con questo denaro e uccidere queste stesse persone con quelle stesse armi, grazie a quegli stessi soldi. Non lo potevo più tollerare», spiega. Oggi la sua famiglia vive in Etiopia, nei campi profughi. Quando gli si chiede di ricordare quei giorni di sangue dell'88, non trova che due parole: «Avevo paura». Eppure lui è rimasto. Non ha più lasciato Hargeisa da un anno e mezzo. Questa notte, comunque, le strade di Hargeisa sono deserte e silenziose. «Di notte siamo noi ad avere il controllo. Di giorno è l'esercito», spiega Ahi Musa. Anche lo spazio è diviso: «Per l'acqua, ciascuno ha la sua zona». Nonostante questa divisione precaria, ciascuno rimane nella sua area: nessuno, in un campo come nell'altro, esce senza fucile. Camminare per le strade, rifornirsi, lavare i vestiti, tutta la vita quotidiana esige scaltrezze degne di un Sioux. Verso le due del mattino, l'immensa città fantasma è avviluppata dalla nebbia. Senza una parola, la colonna si ricostituisce. Bisogna lasciare questo strano cimitero abitato prima che si levi l'alba. «Quando Hargeisa sarà stata liberata, si potrà ricostruire, pulire... Vedrete. La vita ritornerà normale», giurano i due uomini le cui silhouette si stanno confondendo con l'oscurità della notte. Catherine Simon Copyright «Le Monde" e per l'Italia "La Stampa-

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