E il rock disturbò persin Noriega di Stefania Miretti

E il rock disturbò persin Noriega Il 1990 segnerà davvero per la musica il ritorno ai valori antichi e fondamentali? E il rock disturbò persin Noriega Attendendo Baglioni ed il suo mondo «più uomo» In attesa di cedere onori e stadi al calcio mondiale, il rock ha chiuso in sordina — tranne che a Panama, dove è stato usato per far saltare i nervi a Noriega — questo 1989 che almeno in Italia verrà forse ricordato come l'anno del ridimensionamento di un fenomeno che negli ultimi tempi aveva, talvolta anche un po' insensatamente, travolto il Paese. Meno ragazze colte da delirio amoroso per questo o quel cantante, meno sociologia per spiegare successi improvvisi e probabilmente inspiegabili, meno assessori pronti a donare le chiavi della città al primo giovanottone con chitarra a tracolla, molti biglietti invenduti soprattutto quando i prezzi — ed è successo più d'una volta — salgono alle stelle e, in generale, ima maggiore attenzione alla qualità da parte di un pubblico che, dopo aver visto e ascoltato di tutto, Madonna e Jovanotti compresi, ora sceglie. Con il dubbio, finalmente, che non tutto ciò che «suona» in stadi e palazzetti meriti per questo d'essere visto e seguito. Di questo 1989 ricorderemo soprattutto due indimenticabih serate (a Roma e a Milano) di musica e divertimento, offerte da un Paul McCartney gelido e bravissimo, per nulla celebrativo o nostalgico; la sorprendente modernità di «Sergent Peapper»; l'impressione che con l'ex Beatle in giro per il mondo tra stadi e palazzetti, tutti gli altri avessero un bel cantare. Ricorderemo forse il piccolo ritorno di fiamma per il rock progressivo degli Anni Settanta, con l'imprevisto successo dei Jethro Tuli, e la magia di Jan Anderson che canta dentro il flauto. La bravura così ben confezionata di Elton John, il timbro basso e non lezioso di Tanita Tikaram e del suo «cuore antico». I diecimila che vi hanno assistito, non scorderanno il concerto per l'Armenia che ha schierato a Modena Joan Baez, Francesco De Gregori e una scontrosa Tracy Chapman. Ma la scelta di affidare lo spettacolo a tre artisti rigorosi e coerenti anziché alla solita ammucchiata di divi, ha finito per non «rendere» né agli organizzatori, ne' agli armeni (nelle cui tasche sono finiti soltanto venti milioni). Dimenticheremo invece i pochi epigoni delle baracconate rock che avevano segnato le stagioni precedenti, il circo dei Pink Floyd già visto l'anno prima. Dimenticheremo i particolari inutili della vita intima degli artisti, i drammi privati di Annie Lennox, le scappatelle di Simon Le Bon, le nascite, le unioni e le separazioni, le risse, che d'altra parte hanno smesso di fare copertina. Le riviste rosa, più proficuamente, son tornate ad occuparsi di principesse ed ex. E l'impegno sociale e politico? Anche qui, la realtà è rimasta al di sotto delle aspettative, e chi pronosticava, nel ventennale di Woodstock, un grande ritorno ai valori eversivi del rock, ha dovuto poi rassegnarsi all'evidenza che quel che doveva succedere era già successo, e non era poi gran cosa: più beneficenza che impegno, comunque. I «Simple Minds» hanno cantato «Mandela Day», «Soul Crying Out» contro la Thatcher, «Sun City» di Little Steven e «Biko» di Peter Gabriel, due classici contro l'apartheid. Ma si trattava di canzoni già ascoltate l'anno prima; 3 anche l'apprezzata durezza dei testi di Tracy Chapman non era in fondo una novità. A Torino, cinquantamila spettatori hanno assistito al concerto di Little Steven all'indomani della strage di Tienanmen, ma era un concerto di piazza, gratuito ed estivo. Poche le novità anche sul fronte della rmisica italiana: del Festival di Sanremo di quest'anno, ricorderemo soprattutto Nilla Pizzi che interpreta con grinta e sentimento «Grazie dei fior» al controfestival di Mike Bongiorno. La canzone vincitrice, quella cantata in coppia da Anna Oxa e Fausto Leali, è già dimenticata da un pezzo, così come si sono disperse tra nuvole di lacca e sogni di villaggi turistici le preoccupazioni ecologiche di Toto Cutugno e Al Bano e Romina. Determinante il contributo di Francesco Salvi, che sul palco dell'Ariston ha ricordato che: «Facciamo tutti dei versi». Ma anche il demenziale segna il passo, e la sua canzone, chi se la ricorda più? Gli altri avvenimenti dell'anno? Battiato ha cantato di fronte al Papa, ed è la prima volta che la musica pop entra in Vaticano. Ma l'avvenimento impallidisce di fronte a più importanti aperture della Santa Sede. Mina è diventata cittadina svizzera, e nessuno, in Italia, se n'è sentito offeso. Vasco Rossi ha continuato a percorrere la strada della revisione, già imboccata tempo prima. Zucchero ha continuato a vendere dischi. I «Ladri di biciclette» si sono imposti, pare, come «i Blues Brothers italiani». Jovanotti ha fatto il servizio militare tra molte licenze canterine. Ma ci porta fuori argomento. Da ricordare — anche perché porta la data in copertina — il disco di Francesco De Gregori, bell'esempio di coerenza artistica. Ed è, quella di De Gregori, una delle poche «voci contro» nell'uniforme panorama musicale italiano. Il 1989 s'è chiuso con la diffusione dell'inno dei mondiali, cantato in coppia da Edoardo Bennato e Gianna Nannini (basti il verso «dagli spogliatoi escono i ragazzi I e siamo noi» per introdurci nella retorica calcistica che ci aspetta di qui a giugno), e con la «Lambada» che si consuma, più lentamente del previsto, in tutte le discoteche d'Italia. Il 1990, informano i sociologi aprirà una stagione di ritorno ai valori antichi e fondamentali. Ed ecco pronto il nuovo disco di Claudio Baglioni, di cui già si conosce il preoccupante titolo: «Un mondo più uomo sotto un cielo più mago», più o meno. Stefania Miretti In alto: Roberto Baglioni e Paul McCartney. Sotto: Francesco Salvi e Zucchero Fornaciari

Luoghi citati: Armenia, Italia, Milano, Modena, Panama, Roma, Sanremo, Torino