«Metanolo, una strage voluta» di Susanna Marzolla

«Metanolo, una strage voluta» Il pm ricostruisce le tappe del vino al veleno che uccise 19 persone e ne accecò 15 «Metanolo, una strage voluta» Diciotto imputati, di cui nove accusati di omicidio plurimo Divisi in 2 gruppi: «ideatori» e «vinificatori senza scrupoli» MILANO. Armando Bisogni era un etilista. Il 2 marzo del 1986, come era sua abitudine, aveva acquistato al supermercato un bottiglione di vino rosso, uno di quei bottiglioni a buon mercato, duemila lire per due litri di vino. La qualità di quel vino non era certo eccelsa: questo lo sapeva e poco gli importava. Quel che non sapeva è che in quel vino c'era un autentico veleno: l'alcol metilico, o metanolo. Armando Bisogni lo trovarono cadavere in casa sua e fu solo il primo morto di una lunga serie. Diciannove persone, hanno accertato le perizie, morirono a causa di quel vino avvelenato. Decine d'altre subirono lesioni, quindici in modo gravissimo fino a restare cieche. Adesso, a quasi 4 anni di distanza dai fatti, si avvicina il processo per i responsabili di quella strage: il sostituto procuratore Alberto Nobili ha chiesto 18 rinvii a giudizio. Nove imputati devono rispondere — secondo l'accusa — di omicidio volontario plurimo, lesioni aggravate e adulterazione di sostanze alimentari; altri 9 della sola adulterazione. Inizialmente gli imputati erano molti di più, ma sono stati prosciolti in istruttoria. Il pubblico ministero divide gli imputati in due gruppi: quelli che idearono la sofisticazione, procurarono e distribuirono il metanolo; quelli che, producendo vino, decisero di «tagliarlo» con quel veleno. Del primo gruppo fanno parte Giuseppe Franzoni, titolare della «Gioscar», una ditta di autotrasporti di Bagnolo San Vito, Romolo Rivola, Francesco Ragazzini, Roberto Fiancastelli: sono stati loro, secondo il pm, a «tessere le fila dei traffici». Già accusati, nell'83 a Bologna, di essere «promotori di una associazione diretta alla vendita, per la utilizzazione nella vinificazione, di ingenti quantitativi di glucosio e destrosio», alla fine dcll'85 si «rimisero in affari»; «La differenza fu data dal passaggio dal glucosio e destrosio al micidiale metanolo». Il gruppo trovò in Raffaele Di Muro Lombardi il prestanome di aziende chimiche inesistenti a cui ufficialmente era destinato il metanolo e in Adelchi Bertoni e Roberto Bettini due autisti compiacenti: dipendenti della Gioscar, furono loro ad eseguire i trasporti ben sapendo che non finivano alle sedicenti «Agrichimica» o «Aurora», bensì ai produttori di vino. L'elenco del secondo gruppo, quello dei vinificatori senza scrupoli, si apre con i nomi di Giovanni e Daniele Ciravegna, padre e figlio, titolari dell'omonima ditta a Narzole (Cuneo), prosegue con Giovanni Fusco di Manduria (Taranto), Luigi e Raffaele Tirico di Castelseprio (Varese), Antonio Palermo di Cardano al Campo (Varese), Angelo Baroncini di Solarolo (Ravenna), Giuseppe Volpi e Walter Nalin di Conselve (Padova), Carlo Bernardi di Mezzano Inferiore (Parma). Infine, con ruolo di mediatore tra i venditori di metanolo e i produttori di vino. Michele Mastropasqua. Il meccanismo ricostruito da Nobili funzionava così: Franzoni e i suoi complici acquistavano il metanolo ad un prezzo di circa 350 lire al chilo. Lo facevano uscire con bolle di accompagnamento per inesistenti aziende chimiche: di queste bolle ne sono state trovate sedici per un totale di 2621 quintali. L'alcol metilico finiva invece alle ditte vinicole: 400 quintali ai Ciravegna, mille a Fusco (i francesi, quando scoppiò lo scandalo bloccarono tre navi cisterna cariche del suo vino al metanolo), 250 quintali a Bernardi e così via. I vinificatori pagavano il metanolo ben più caro, sulle 20002500 lire al chilo, ma restava sempre un metodo ultraeconomico per alzare la gradazione alcolica del vino. Ovviamente la sofisticazione avveniva infischiandosene altamente sia dei limiti consentiti dalla legge sia di quelli consigliati dalla medicina: «una dose di 10 mi — nota il pubblico ministero — è notevolmente tossica; sono stati segnalati casi mortali o di cecità permanente anche per soli 5 mi». I Ciravegna arrivarono a produrre un vino che aveva il 75% di metanolo: «una percentuale — scrive Nobili — che porta ancora una volta a sottolineare la scelleratezza del loro operato». Non a caso padre e figlio di Narzole sono tra i maggiori imputati: «Tutto il vino determinante gli eventi letali o dannosi fu messo in commercio dopo essere stato metanolizzato presso le cantine della ditta Ciravegna», si legge nella requisitoria. Il vino che avevano bevuto Armando Bisogni e molte altre vittime portava l'etichetta della «Odore» di Incisa Scapaccino. Ma furono proprio i titolari della ditta ad indicare la provenienza dai Ciravegna. Non solo: la perizia affidata ad un nutrito gruppo di esperti parla di una «realizzazione comune» del vino avvelenato. Perciò il magistrato contesta ai Ciravegna, padre e figlio, il reato di omicidio plurimo e di lesioni. Identica contestazione anche per il gruppo dei venditori di metanolo (Franzoni, Piancastelli, Rivola, Ragazzini, Di Muro Lombardi, Bertoni e Battimi. Gli altri produttori, che pure usarono quel veleno, devono rispondere solo di adulterazione alimentare. Una cosa è certa, infatti: fu solo la tempestività delle indagini che «permise di arginare le conseguenze di quello che avrebbe potuto diventare un vero e proprio sterminio». Susanna Marzolla Giovanni Ciravegna Francesco Ragazzini