Sulla Cortina di bambù il vento dell'89 di Domenico Quirico

Sulla Cortina di bambù il vento dell'89 Dopo 37 anni in discussione un altro simbolo della guerra fredda, il «Muro» che divide le Coree Sulla Cortina di bambù il vento dell'89 Disgelo diplomatico di Kim II Sung, padre padrone del Nord Ma Seul non si fida: prima deve varare la sua perestrojka Sul 38° parallelo tutto è normale: marines e soldati nordcoreani continuano a spiarsi anni alla mano, a Panmunjon, villaggio-simbolo della guerra fredda asiatica, i turisti giapponesi spiano con gli obbiettivi delle loro macchine fotografiche la gigantesca statua di oltre venti metri «del Sole dell'umanità» Kim II Sung, costruita come una sfida a poca distanza dal confine. Eppure il vento dell'89 inizia a spirare anche sui 240 chilometri della «Cortina di bambù», un nome forse troppo gentile per una delle più rigide separazioni artificiali che la politica ha imposto alla natura e alla storia. Mentre la «sorella» dell'Europa Orientale, a dispetto del metallo di cui è fatto il suo nome, è ormai una rovina di calcinacci e filo di ferro arrugginito, adatto come souvenir di Natale, la lunga ferita irta di cannoni che nel 1953 separò i marines Usa e l'armata rossa di Mao sembra ferma ai tempi di Stalin e Foster Dulles. A smuovere le acque, a sorpresa, è stato «il sole dell'umanità», «il mai sconfitto condottiero», «il leggendario eroe senza pari», al secolo Kim II Sung, l'inventore in Corea del Nord della prima via ereditaria al comunismo, una monarchia rossa che ha prodotto un micidiale impasto tra assolutismo confuciano e stalinismo. A fine anno, invece dei tradizionali insulti all'imperialismo americano e ai fascisti di Seul «sempre pronti a ingoiare la sentinella del comunismo», ha proposto di smantellare il Muro che divide i due Paesi, definito un «disonore della nazione». Improvvisa conversione di uno staliniano ormai vecchio e malato che vede avvicinarsi anche a Pyongyang l'ora della resa dei conti e vive nell'incubo di fare la fine di Ceausescu? A Seul non ci crede nessuno e ieri un portavoce ha subito gelato gli entusiasmi definendo le offerte di negoziato del Nord, una mossa propagandistica che mira a alleggerire le pressioni, soprattutto sovietiche, perché imbocchi il cammino delle riforme. Resta il fatto che il Nord sembra parlare per la prima volta un linguaggio nuovo, dopo essere stato per anni ancorato alla proposta di una federazione tra i due Paesi che, per la evidente impossibilità pratica, era costruita apposta per prolungare l'impasse. Lungo il 38° parrallelo, anche se la tragica scenografia della guerra fredda non è cambiata e un milione di uomini, coreani e americani, tengono le armi ben oliate, sono un ricordo i tempi in cui i due eserciti combattevano una guerra di talpe, scavando sotto la zona smilitarizzata gallerie e controgallerie per l'«inevitabile» assalto finale, e al tavolo delle rituali trattative di Panmunjon le risse riguardavano anche l'altezza delle aste delle bandierine o la disposizione dei microfoni. Recentemente Kim ha avviato il disgelo perfino con il satana americano, grande tutore del Sud: nell'autunno scorso l'ex vicesegretario di Stato Jigur è venuto in visita a Pyongyang e nella prossima primavera un importante consigliere della corte di Kim, Ho Dam, per la prima volta sbarcherà negli Stati Uniti. Il regime del Nord ha dato i primi segni di disponibilità con un disgelo sportivo, avviando negoziati per formare un'unica rappresentativa ai Giochi asiatici in programma quest'anno e riprendendo le trattative per gli scambi tra le famiglie separate dalla guerra. Semplici dettagli, certo, ma che non possono non ricordare i primi passi nel riavvicinamento tra altre due sorelle separate dalla politica, Germania Ovest e Ddr. Nel regno di Kim, che per decreto è stato proclamato orwellianamente il «paradiso» realizzato in tèrra, non tutto sembra andare per il verso giusto. L'economia ad esempio, di rigida marca staliniana, segna il passo ma il regime continua imperterrito a destinare dal 30 al 35 per cento del suo bilancio alle spese militari, come ai tempi di McArthur. Anche sul piano interno la pace confuciana garantita dalle baionette sembra aver subito qualche sussulto: dalla cortina di bambù sono filtrate recentemente voci di un all'erta delle forze di sicurezza per prevenire possibili sindromi romene. Il miglior presidio del regime, come sempre, b il silenzio staliniano che Kim ha imposto al suo Paese dove gli apparecchi radio non hanno le onde corte perché non captino «propaganda pericolosa», e la popolazione è ancora convinta che a Seul si soffra la fame e che gli Usa siano pronti a lanciare, da un momento all'altro, l'invasione. Non ha torto quindi il presidente sudcoreano Roh Tae Woo quando replica a Kim ribadendo che le possibilità di progressi reali nel dialogo sono legati a una perestrojka al Nord che tenga conto della lezione di Gorbaciov e della democratizzazione nell'Est europeo. Ma tra i suoi due grandi tutori, Urss e Cina, il monarca rosso di Pyongyang preferisce certo il modello-Deng che ha mandato i carri armati a cancellare i sogni di democrazia degli studenti, troppo appassionati di riformismo. Ma anche al Sud i tempi sono cambiati rispetto agli anni della guerra fredda: è finita ad esempio la stagione dei generali, che per anni hanno amministrato il Paese come proconsoli americani con pugno di ferro, esaltando il clima di mobilitazione contro il Nord comunista. Seul è diventato uno dei poli del capitalismo asiatico, può esibire rispetto alla spartana autarchia di Pyongyang un boom economico che spaventa perfino Washington. Se nell'era di Gorbaciov Bonn può sognare la riunificazione con la «povera» Germania Est a colpi di marchi, perché sul 38° parallelo, presto o tardi, i won di Seul non dovrebbero riuscire a comprare anche il regno rosso di Kim? Domenico Quirico Il «monarca» della Corea del Nord Kim in un recente incontro con il leader cinese Deng

Persone citate: Ceausescu, Foster Dulles, Gorbaciov, Gorbaciov Bonn, Kim Ii Sung, Mao, Stalin