MAL DI BERNHARD di Ferdinando Camon

MAL DI BERNHARD MAL DI BERNHARD «Il freddo», una parodia della vita aspettando la fine DA qualche parte, dentro di noi, avevamo sempre pensato che un libro come li! freddo esisteva, doveva esistere. Non sapevamo chi l'avesse scritto, chi potesse scriverlo: ma sentivamo che la lingua, la cultura austro-tedesca non poteva mancare di questa analisi, testimonianza, confessione. Noi abbiamo sempre sentito e vissuto le immense colpe che accompagnarono la seconda guerra come vittime (anche se noi italiani, a dir la verità, dobbiamo compiere una torsione morale per cavarci fuori dal ruolo di colpevoli), e la nostra domanda era: Cosa posson fare le vittime come noi, come possono riconciliarsi alla vita? Ma sentivamo che un'altra domanda, meno essenziale per noi ma immancabile sulla terra, poneva la stessa questione capovolta: Che ne è degli autori di quella storia, come ne escono, come fanno a vivere, che gli succede? La risposta doveva esserci, non poteva non esserci, e prima o poi ci avremmo sbattuto addosso. La troviamo ora, nel racconto autobiografico II freddo di Thomas Bernhard. Il fatto che la troviamo in Bernhard significa già che la dissoluzione di quella storia è fusa con la dissoluzione della vita, la storia viene ereditata come una malattia: apparentemente Bernhard non racconta che il cammino della malattia nel proprio corpo. Il libro comincia, e il protagonista è invaso dal male; il libro finisce quando lui decide che la malattia non lo riguarda. La malattia è un'ombra su un polmone, visibile ai raggi. Per spurgare quell'ombra, colui che parla e tutti coloro che sono con lui non fanno che sputare: viaggiano per i corridoi del sanatorio con le sputacchiere in mano, come un personale ostensorio, raschiano con uno sforzo i lobi dei polmoni, nel tentativo di liberarsi del vischio colloso rintanato sul fondo. Quella macchia blocca il respiro, impedisce la vita: c'è quella macchia, quindi non possono vivere. Quella macchia ha che fare con quel che han fatto o che han fatto i padri: «Non era logico che fossi capitato qui? Tutta la mia vita precedente non era forse stata costruita perché io finissi i miei giorni in questo Grafenhof?». Grafenhof è il sanatorio: «Io a quell'epoca, com'era giusto aspettarsi, mi ero aggrappato alla disperazione al cento per cento, mi ero aggrappato al dolore, alla disperazione del dopoguerra, all'orrore del dopoguerra. Qui, in una situazione di sfacelo, dove la fine si preannunciava sempre più vicina, tangibile, io mi sentivo come centinaia, come migliaia, come milioni di altri individui, a ciò ero preparato in modo perfettamente logico e, come io stesso ora dovevo riconoscere, mi sentivo al sicuro. Perché proprio io, a differenza di altri milioni di individui che in guerra, dopo la guerra, o in conseguenza della guerra sono periti, con quale diritto proprio io avrei dovuto cavarmela, e in effetti avevo creduto di essermela cavata in virtù di alcune cosiddette felici coincidenze, ma ora mi aveva scovato la fine della vita, nel mio, nel nostro cantuccio, mi aveva raggiunto, stanato e incorporato». E' la fuga nella malattia come sottrazione alla vita, come rimedio alla impossibilità di vivere. La madre-Austria sta morendo, ed è l'unica morte che conta. Come proietta il male della storia nella malattia, così Bernhard identifica la madre-patria con la madre fisica: «Se i miei sapessero che cosa significa realmente Grafenhof, non si erano posti questa domanda, non avevano il tempo per farlo, la loro attenzione era rivolta alla malattia di mia madre, che era stata diagnosticata come mortale». Il figlio è malato nei polmoni, ed ogni respiro è un passo verso la morte, così la madre è malata nell'organo materno per eccellenza, l'utero. Il padre è innominabile: «Enormi dovevano essere i crimini commessi dal mio padre carnale perché in famiglia e perfino da mio nonno non mi fosse permesso menzionare il suo nome, perché mi fosse proibito pronunciare la parola Alois». Si vive in una parodia della vita che attende la morte. Nel sanatorio, alla messa, i tisici cantano, ed è come se cantassero la propria messa funebre: «Da tutte quelle gole gracidanti ed erose si sprigionava il Grosser Gott, wir loben Gott, che sempre veniva cantato con la massima forza ed intensità di voce. Io ero lì in piedi a cantare con gli altri, a urlare con gli altri, e il mio sguardo era rivolto a quelle teste sudate e penzolanti sorrette dai colli magri, grigi ed eretti come aste per gli stendardi della processione. Sulla parete dietro di me avevo le partecipazioni funebri dei defunti, davanti a me i cantanti in carne e ossa. Questi, pensavo, continueranno a cantare fin quando i loro nomi non saranno affissi alla parete che si trova dietro di me». Bernhard descrive quello che lui stesso chiama 1'«Inferno», da cui non c'è, non può esserci uscita: il suo racconto si muove come una peregrinazione circolare, e quindi statica, incapace di svincolarsi dall'attrazione della morte. La storia non dovrebbe perciò avere una soluzione: dovrebbe consistere tutta nella ricognizione e nella conferma della morte generale, in questo nuovo - vien voglia di dire - sterminio, in questo nuovo Lager, in cui si paga la colpa di essere nati. Ma, scrittore che si pone continuamente il problema della vergogna («Se avessi anche soltanto un briciolo di pudore non potrei scrivere affatto, scrive soltanto chi è spudorato»), Bernhard si sforza stavolta di rompere questo blocco, e di sfociare nella ribellione, quindi nella salvezza: si sottrae alla malattia con un gesto volitivo, con cui decide di non essere malato, la malattia non la merita, non è affai- suo. Ma questo è soltanto uno sterile atto della volontà, simile al gesto di chi vuol proclamarsi padre di se stesso: in realtà ognuno ha la vita che gli è data, e Bernhard sta lì a testimoniare che la sua generazione ha ricevuto con la vita un dono funesto. Ferdinando Camon Thomas Bernhard Il freddo Adelphi pp. 126. L 16.000 Thomas Bernhard visto da Loredana

Persone citate: Gott, Grosser, Thomas Bernhard