Alla Mole i Maestri italiani ispirati dalle ciminiere

Alla Mole i Maestri italiani ispirati dalle ciminiere ARTE IL COLORE DEL LAVORO Alla Mole i Maestri italiani ispirati dalle ciminiere PER festeggiare il centenario delle prime Camere del lavoro è felice idea quella di una mostra di pittura imperniata su questo tema gigantesco, dai molteplici risvolti: è la mostra alla Mole c'è ed è bella, ricca di capolavori dei Maestri italiani dall'Ottocento a oggi. Siamo grati a Claudia Gian Ferrari e a Francesco Poli per aver scelto le opere con un occhio così sensibile alla qualità pittorica. Chi andrà a vedere questa splendida carellata di pittura si godrà innanzitutto i dipinti, uno ad uno, ed avrà una esemplificazione di quasi tutte le più rilevanti impostazioni pittoriche concepite in Italia nell'ultimo secolo, dal divisionismo all'astrattismo materico dei ferri di Burri. Restano fuori soltanto gli artisti che dal tema «il lavoro» non trassero mai ispirazione, neppure marginale, come De Pisis e Mqrandi. Quando, in alta epoca, la pittura era commissionata dalla Chiesa o dall'aristocrazia, il tema del «lavoro» non aveva quasi esemplificazione. E' vero, non c'erano le fabbriche; eppure la gente lavorava. Così, accanto a qualche contadino (colto sempre come elemento di divertimento quasi buffonesco) e a qualche Marte-fabbro e San Giuseppe-falegname, il lavoro non sembra aver dato ispirazione ai pittori, più impegnati a descrivere gli ozi, le feste, i banchetti, le cacce. Tale d'altronde era la vita del committente, principe o barone che fosse. La pittura olandese del secolo d'oro, per la prima volta commissionata dalla ricca borghesia, coglie soltanto qualche lavoro domestico; talvolta, come curiosità, nel Settecento (Watteau, Goya) si tratteggiano alcuni «mestieri» pittoreschi (Lo Spazzacamino, l'Arrotino); ma è solo con l'Ottocento e l'industrializzazione che il tema del lavoro sembra, ma non frequentemente, portare immagini nuove, potenti e tragiche, all'interno della pittura. U tema della ricerca scientifica e del progresso tecnologico è scelto in Inghilterra da Wright of Derby come centrale della sua poetica. Ma non molti seguono il suo esempio, il lavoro rimane fuori dalle tavolozze se non per casi marginali, come ad esempio lo Spaccapietre di Courbet: bisognerà aspettare il realismo sovietico per avere una costante e generale centralità di questo tema. Nel lungo Ottocento la borghesia proto-industriale non sembra trovare ragioni di orgoglio nel far ritrarre i luoghi di lavoro; preferisce i temi mutuati all'aristocrazia, i ritratti e il tempo libero gustato all'aperto o nell'intimità domestica. E, naturalmente, in parallelo con i ritratti, continua l'esaltazione o la satira delle professioni più intellettuali: i chirurghi di Eakins (come quelli di Rembrandt), gli avvocati di Daumier. Gli impressionisti non fanno quasi mai eccezione: balli, regate, pic-nic, corse di cavalli battono fabbriche e laboratori, che pure erano un aspetto importante della vita ottocentesca. Ebbene: la fabbrica avrebbe offerto gamme di colori straordinariamente nuove, solo per analogia descritte nei fumi delle stazioni ferroviarie di Claude Monet. E, a ben guardare questa mostra torinese, lo stesso si deve concludere dell'Italia, Il mito della campagna e dei lavori agresti, tramite l'esempio di un Millet e di un Segantini (di cui è in mostra una bella Senatrice) produce quadri gonfi di retorica come le mondine di Morbelli («Per 80 centesimi!»: ma si dimentica il significato liberatorio e di allegra vacanza che aveva la monda del riso per queste povere contadine che giungevano da tutte le parti d Italia), Manca una visione semplice e reale del lavoro nei campi, che ne colga i lati duri insieme a quelli accettabili o addirittura invidiabili; non vi è in Italia un pittore che corrisponda a quello che fu Giovanni Pascoli con le sue poesie, a parte, naturai- mente, il grande Segantini che copre la lacuna almeno per la vita di montagna. Sono i divisionisti a cogliere con dirompente e astratto ottimismo la realtà dinamica del lavoro come movimento: una piccola ma smagliante «Città che sale» di Boccioni è forse il capolavoro di questa mostra, accanto a un altro delizioso piccolo quadro, «Tram in piazza del Duomo a Milano» di Carrà, e all'energia dei fulmini di Russolo sulle ciminiere urbane. Le strutture edilizie, le ciminiere, i capannoni all'interno della città, in altre parole «il paesaggio urbano moderno di periferia» sono una conquista iconografica del novecento, specialmente attraverso l'opera neomasaccesca di Sironi. Un esterno di fabbrica di Galileo Chini («Primo turno») è da segnalare, ma in generale si può dire che manchi un vero, appropriato svolgimento del tema per quanto si riferisce alla sua forma più tipica e moderna: non catene di montaggio, uffici (come, per esempio, fece l'americano Hopper con grande poesia), laboratori, che pur sarebbero stati temi nuovi e stimolanti per la complessa difficoltà. Sempre una certa dose di retorica, di gonfiore, nel trattare il tema del lavoro che non è mai visto nei suoi aspetti positivi (che pure ha) e sembra destare paura e orrore nei pittori. Vi sono poi in questa mostra ricca di molti temi alcuni dipinti che la lotta sociale dei lavoratori come «classe» ha suggerito, da disegni e studi per il famoso «Terzo Stato» di Pellizza ai comizianti di Turcato e Guttuso. Per concludere: in Italia è l'aspetto pittoresco e paesaggistico delle strutture esterne del lavoro quello che forse ha dato le opere pittoricamente più valide, più accettabili sul tema (esemplari le periferie di Sironi, non in questa mostra ma ben presenti a tutti gli amatori d'arte moderna), e molto resta ancora da fare per i pittori di buona volontà. Si affrettino, prima che il lavoro diventi attività per soli robot. Beppi Zancan Il colore del lavoro Mole Anto n e 11 i ana, via Montebel lo 20 orario 9-19; festivi 10-13 e 14-19; chiuso il lunedi; fino al 3 novembre «Primo turno» di Galileo Chini Sotto: comò con balde soprastante in asta alla Delia Rocca

Luoghi citati: Inghilterra, Italia, Milano