ZIBALDONE è finita la confusione

ZIBALDONE è finita la confusione Il testo di Leopardi riportato all'originale. E nasce una polemica fra gli studiosi ZIBALDONE è finita la confusione permanarenrera:tre grossi volumi con note, varianti, correzioni, commenti, a un prezzo alto ma accessibile, destinata agli studiosi e anche ai lettori colti. Porta la firma del professore Giuseppe Pacella, e verrà presentato sabato a Recanati subito dopo la conclusione del congresso intemazionale di studi leopardiani. Con i suoi 4526 fogli manoscritti, ora perfettamente leggibili ora tormentati da note e aggiunte, l'opera rappresenta il «laboratorio» del grande poeta: in essa Leopardi annotava le letture, sviluppava i suoi pensieri e le sue riflessioni, traduceva, citava, interrogava la sua prodigiosa memoria, i libri e il mondo, dal 1817 alla morte, avvenuta nel 1837: vent'anni. Ce ne sono voluti molti di più per ripercorrere e ricostruire questa straordinaria avventura di pensiero, e permettere di leggere il «vero» Zibaldone: le due edizioni critiche precedenti, una sotto la direzione del Carducci all'inizio del Novecento e l'altra curata da Francesco Flora, erano zeppe d'errori. Flora leggeva «filologia» per «Otologia», «cosa» per «casa», «ammirar» per «camminar»: non erano sviste tali da creare fraintendimenti globali, ma c'erano. Da queste edizioni, soprattutto, non era possibile capire come lavorasse Leopardi, come funzionasse la sua eccezionale creatività intellettuale. Giuseppe Pacella, per scoprirlo, ha ripercorso la vita del poeta, in qualche modo l'ha ripetuta, passo passo, libro dopo libro. Si è messo sulle sue orme, lo ha seguito dalla biblioteca famigliare, in Recanati, fino alla morte a Napoli. Ha letto, nell'edizione originale o in quelle di cui disponeva Leopardi, tutti i libri, le riviste, le «gazzette», le lettere, e alla fine è emersa, dal disegno delle note, una sorta di radiografia stratificata della scrittura leopardiana. Il poeta di Recanati citava a memoria, senza annotare le fonti, che però sfruttava al massimo. Gli bastava una frase, un riferimento anche remoto, e ricostruiva, sviluppava, arrivava a un passo da un originale a lui sconosciuto. Gli capitava di leggere, già tradotte in italiano, osservazioni di autori francesi o spagnoli, e di ritradurle. Poi, magari anni dopo, quando trovava il testo originale, cercava il punto sullo Zibaldone e correggeva. Gli esempi sono tanti. «Nelle prime pagine - spiega il professor Pacella - è riportato un aforisma di Rousseau, quello celebre che dice: "L'homme qui médite est un animai depravò", con una curiosa variazione: "Tout homme qui pense est un ètre corrompu"». Siamo verso la metà del 1819, Leopardi sta leggendo Rousseau in traduzione italiana, ma lo ritraduce, come per inseguire il suono primitivo di quelle parole. «Più tardi cita lo stesso aforisma, ed usa "de¬ prava", perché nel frattempo ha letto un saggio di Lamennais dove il passo è ri¬ portato ancora in modo imperfetto, ma con l'aggettivo giusto. In realtà Leopardi non si preoccupa troppo di verificare l'esattezza della citazione. Quel che gli preme è il contenuto». Ma intanto ricrea, sulla base d'una ricerca personale. I suoi autori vengono ingoiati dal labirinto, costruiscono pezzo a pezzo il luogo segreto dove nessun altro si sarebbe mai dovuto avventurare. Pacella cominciò a lavorare sullo Zibaldone con Sebastiano Timpanaro, preparando l'edizione degli scritti filologici. Da quel momento ne rimase in qualche modo intrappolato. Rivedere gli errori dell'edizione Flora si trasformò nel lavoro di una vita, nell'inseguimento di un filo d'Arianna interminabile e in apparenza inafferrabile. I minotauri, in quel labirinto, non mancavano. Ma ce n'erano anche fuori: man mano che l'edizione critica prendeva forma, si poneva il problema di pubblicarla, e la mole del lavoro spaventava gli editori. Il primo a farsi avanti fu Luciano Foà, per l'Adelphi. Poi fu la volta di Mondadori e infine, cinque anni fa, di Garzanti. «Da quel momento è cambiato tutto - ricorda Pacella con un beve moto di stizza -. Gli editori italiani, che non avevano voluto rischiare cinque lire per lo Zibaldone, che lo consideravano un'operaccia, cominciarono a telefonarmi. Sembrava che improvvisamente tutti lo volessero pubblicare». Non era ancora il lieto fine: nel mondo dei filologi non c'è pace. Quello che al profano sembra un lavoro lento, faticosissimo ma sereno, tra antichi libri e polvere di biblioteche, porta con sé un pathos scientifico che a quelle polveri può dare fuoco in ogni momento. I filologi si trasformano allora in cacciatori di accenti, tagliatori di refusi, incursori della lettera: quella che ha portato all'edizione critica dello Zibaldone non è stata forse una guerra dei trent'anni, ma il finale si è rivelato acceso. Poco più di un anno fa, un colpo a sorpresa ha rischiato di mettere tutto di nuovo in discussione: sono usciti i primi vo- lumi di un'opera monumentale, sostenuta dall'Università di Pisa e presentata all'Accademia dei Lincei, l'edizione fotografica dello Zibaldone. Il manoscritto è stato riprodotto tale e quale (anzi un po' ingrandito) da un'autorità nel campo della glottologia, il professor Emilio Peruzzi. L'edizione sta andando avanti (alla fine saranno venti volumi): ma fin dall'inizio è stata interpretata come un'iniziativa che in qualche modo poteva mettere fuori gioco il lavoro di Pacella. Il punto di divisione erano i criteri usati: riportare assolutamente tutto, come appunto in una fotografia, o scegliere, come si fa tradizionalmente, le cose rilevanti tralasciando le minuzie non significative? Nell'introduzione, Peruzzi diceva di non assiderare buona filologia i «criteri selettivi raccomandati dal Timpanaro e condivisi da Pacella» perché la scelta di quel che si giudica importante è pur sempre un arbitrio. L'autografo dello Zibaldone, poi, viene considerato dal professor Peruzzi una lettura relativamente agevole, perché la calligrafia di Leopardi è chiara, e perché con tutta pro¬ babilità - ipotizza il glottologo si tratta già di una «ricopiatura» da minute precedenti. Dietro 1'«immenso scartafaccio» - come il poeta chiamava scherzosamente questo suo lavoro - si profila un'ombra, un manoscritto perduto: E davanti, in prospettiva, un'edizione a stampa cui forse Leopardi pensava. Pacella contrattacca: «Dobbiamo guardare al contenuto e allo stile. Non a un refuso di cui Leopardi si è accorto e che ha corretto». Così, spiega, se il poeta attribuisce una citazione a Reynal piuttosto che a D'Alembert, e poi rimedia, la cosa va ovviamente segnalata. «Ma i lapsus poi corretti, le parole appena iniziate e poi cancellate e dalle quali non si può neppure congetturare che cosa mai volesse scrivere? Devo segnare anche quelle? E le macchie d'inchiostro? Le sbavature? Questa sarebbe filologia da ultra. Io credo si debba scegliere, motivando le proprie scelte». Lo scontro è aspro. Proprio ad esso Pacella aveva dedicato un capitolo, nell'introduzione ai tre tomi di Garzanti. Poi se n'è pentito, e lo ha fatto saltare. Anche Peruzzi getta acqua sul fuoco: sorridente, rilassato, in un momento di pausa al convegno ci dice che «apprezza molto» il lavoro di Pacella. E che le due edizioni si integrano perfettamente, non sono in concorrenza tra loro. Sarà vero? Nel mondo dei filologi, mentre resta viva la contesa se sia esistita una minuta dello Zibaldone, poi distrutta o scomparsa, torna uno scritto fantasma che è invece sparito da pochissimo: il capitolo VII dell'introduzione firmata da Pacella. In esso lo studioso manifestava tutti i suoi dubbi sul fatto che il manoscritto della Zibaldone sia da considerare una «bella copia, come sostiene il Peruzzi»: «per conto mio - concludeva -, questo è ai limiti dell'assurdo». Leopardi, insiste Pacella, non pensava minimamente a dare alle stampe quel suo lavoro di tanti anni: per farlo parlare non basta riprodurlo fotograficamente, perché diventerebbe una lettura possibile solo a pochi specialisti. Bisogna invece farlo leggere davvero, e ora è venuto il momento. «Si è sempre studiato lo Zibaldone per capire le altre opere • ci dice Pacella - ma qui c è tutto Leopardi: il filosofo e lo scrittore. E c'è una prosa bellissima: qui il poeta inventa davvero una nuova lingua, senza la preoccupazione della stampa. E rivela tutto se stesso». Mario Baudirto Giacomo Leopardi in un disegno di Emesto Galliano. A sinistra, pagine dello «Zibaldone», e in alto a destra il professor Giuseppe Pacella: ha lavorato trent'anni per preparare l'edizione critica ora pubblicata da Garzanti pp gpgALDONE è finita la confusionei Vi * Ut ' \Jm. 4U*U ynu I I* r 41 m Muto*. ' $ ,.* Kit e* A RECANATI Critici da tutto il mondo RECANATI. «Lingua e stile di Giacomo Leopardi» è il titolo del convegno internazionale che si è aperto lunedì nell'aula magna del Palazzo municipale, e si conclude domani. E' promosso dal Centro nazionale di studi leopardiani e fa parte del progetto «Leopardi nel v¥ % f ■!-kmm portato ancora in modo imperfetto, ma con l'aggettivo giusto. In realtà Leopardi non si preoccupa troppo di verificare l'esatGiacomo Leopardi in un disegno di Emesto Galliano. A sinistra, pagine dello «Zibaldone», e in alto a destra il professor Giuseppe Pacella: ha lavorato trent'anni per preparare l'edizione critica ora pubblicata da Garzanti lumi di un'opera monumentale, sostenuta dall'Università di Pisa e presentata all'Accademia dei Lincei l'edizione fotografica

Luoghi citati: Napoli, Recanati