Tutta l'opera da Mursia: la parola al traduttore di Ruggero Bianchi

Tutta l'opera da Mursia: la parola al traduttore Tutta l'opera da Mursia: la parola al traduttore Ecinque! L'uscita in questi giorni del Truffatore di fiducia e dei Racconti della veranda, da me curati per la prima edizione italiana delle Opere complete di Herman Melville publicate da Mursia, segna un ulteriore passo verso il completamento di un'impresa alla quale, nel complesso, ho dedicato più di dieci anni della mia vita. Nella primavera del 1992 sarà in libreria il sesto volume, con Billy Budd, i racconti e i frammenti sparsi e i due diari, inediti in Italia, dedicati ai viaggi europei: Inghilterra, Francia, Germania, Paesi Bassi e l'intero bacino del Mediterraneo, dall'Italia alla Grecia, dall'Egitto alla Palestina. Poi, in immediata successione, il settimo volume, con una nuova traduzione di Moby Dick: un'impresa che tutti mi sconsigliano, ritenendo impossibile competere con la fatica di Pavese (e dell'anglista Nemi D'Agostino, studioso a modo suo impareggiabile), e che tuttavia appare necessaria. Per quanto abbiano detto e vadano dicendo critici e amici continuo infatti a pensare che il Moby Dick pavesiano sia un capolavoro stupendamente non-melvilliano. E dopo ancora (ma qui entriamo nel mondo delle speranze e dei sogni), la prima edizione completa italiana di Clarel, il «poema/pellegrinaggio in Terrasanta» scritto da Melville negli anni oscuri del silenzio narrativo, dopo aver consapevolmente accettato di trasformarsi in anonimo impiegato della Dogana di New York. Dieci anni di vita spesi a curare e a tradurre opere di un autore che pochi ancora hanno imparato ad apprezzare e a capire nella sua globalità e nella sua complessità. Dieci anni d'impegno e di entusiasmo, ma anche di dolori e di perdite, come sempre accade in quel tipo di esistenza che Melville ci ha insegnato a subire, accettare e combattere, prima ancora di narrarla. Perdite a volte pesanti che lasciano vuoti incolmabili, come quella di Luigi Pareyson al quale (come a Giorgio Melechiori) devo gran parte di quello che sono: a lui avevo dedicato la mia traduzione di Pierre e con lui speravo di condividere la gioia di offrire ai lettori italiani la versione integrale di Clarel, la cui grandezza venne fatta loro intuire alcuni anni fa dalla concisa silloge curata da Elemire Zolla per Einaudi. O come quella di Enzo Giachino, melvilliano di razza e anglista di raffinatissimo gusto, cui il destino ha negato il piacere di vedere a stampa la sua ultima impresa, la traduzione del Truffatore di fiducia. Perdite, e anche paure. Come quando, traducendo Mardi, vissi con angoscia i capitoli sui quali - lavorando sul campo: è proprio il caso di dirlo era all'improvviso mancato Luigi Berti, forse colui che maggiormante aveva contribuito a proporre in Italia l'autore di Moby Dick, con le sue versioni di Typee, di White Jacket e di Pierre. Ripensandoci, il rapporto con Melville segna tutta la mia esistenza di artigiano della letteratura. Uno dei miei primi saggi, quando ancora ero studente, aveva come tema Billy Budd. La mia attività di traduttore è cominciata con lo stesso Billy Budd e con Benito Cereno (Due storie di marinai, sempre per Mursia, ma successivamente uscite anche da Garzanti) ed è proseguita con una scelta di poesie inclusa da Claudio Gorlier nei due volumi melvilliani dei Meridiani Mondadori. Forse perché occuparsi di Melville ha sempre significato per me occuparmi della vita e cercare di capirne il senso. Uno dei miei studi s'intitolava A che serve, se dopo... (sottinteso: tutti dovremo morire): un interrogativo sempre presente nel massimo scrittore americano, che pro¬ babilmente smise di scrivere per le stesse ragioni che portarono al silenzio Rimbaud o, se si preferisce, il suo Bartleby, che rifiuta la scrittura e l'esistenza perché, tutto sommato, quando si capisce che cosa sta sotto al mistero della vita, diventa naturale rispondere a ogni richiesta I would prefer not to, preferirei di no. E allora, ma soltanto dopo, si scoprono tante altre cose, criticamente molto importanti. Ad esempio, che romanzi come Mardi, Pierre, The Confidence Man, trascurati sovente e malintesi quasi sempre, non sono meno significativi e affascinanti di Moby Dick. O che il loro autore ha anticipato di parecchie decine d'anni Joyce, Proust che è stato tra i primi moderni a cimentarsi in «esercizi di stile», a elaborare una teoria del work in progress, a vedere nell'artista l'eunuco e il santo, il guru e il fallito supremo, l'elaboratore di nuove filosofie e la voce di una saggezza antica e mai scritta: l'incarnazione degli splendori di Salomone, ma anche l'impostore supremo che scrive per puro spirito di carità. Il resto è letteratura, da lasciarsi a quanti avranno la pazienza di leggere i rimandi di quella che è, in assoluto, la prima edizione commentata (e forse, senza presunzione, critica) di tutto Melville. Avranno il piacere di scoprire che il grande narratore americano possedeva rudimenti di greco, avversava Aristotele, apprezzava Platone attraverso Proclo, conosceva i pitagorici e i presocratici, disponeva di una cultura enciclopedica pur commettendo spesso banalis simi errori di ortografia, divo rava leopardianamente ogni genere di letteratura, di arte e di scienza, per cercare di dare un senso a una vita che - con suprema chiarezza - ricono sceva ormai di non poter più vivere al futuro ma solo al passato. Ruggero Bianchi