QUEI VOLI DISPERATI

tuttolibrì tuttolibrì QUEI VOLI DISPERATI Rocca: la disfatta dell'Aeronautica nella seconda guerra LA STAMPA /.iifilio l'J'll Ilibri di Gianni Rocca sono ingannevoli, come in fondo dovrebbero essere i libri di ogni vero giornalista. Molta seria ricerca, molti documenti, molto talento per «montare» narrativamente i medesimi, e la coscienza di non avere i vasti obblighi interpretativi di un Gibbon, di un Simon Shama. Ecco i fatti, ci pensi il lettore a farsi una sua idea. Così Rocca ha proceduto nel suo Cadorna per la tragedia delle trincee del '15-'18, cui fece seguito Fucilate gli ammiragli, vale a dire la tragedia della nostra Marina nella seconda guerra mondiale. Ora, (ancora da Mondadori) pubblica J disperati, altra tragedia relativa questa volta all'Aeronautica italiana, sempre del '40-'45. Tre pezzi di storia patria, tre tragedie. Possibile che sia solo un caso? O si tratterà di una morbosa mania dell'autore? Si entra con questo dubbio nell'asciutto racconto, che giustamente Rocca prende da lontano, cioè dalla fondazione dell'Arma «fascistissima» nel 1923. Ma già nel '20 e '21 c'erano state delle «trasvolate» traballanti e sensazionali, già da allora si potevano udire i funebri rullìi. Mussolini è lui stesso pilota (ha avuto il brevetto prima della Marcia su Roma) e SI appresta a diventare «monumentale» questa Storia dell'agricoltura edita da Marsilio. Migliaia di pagine in tre tomi complessivi (è appena uscito il secondo: «Uomini e classi») che partono da «Spazi e paesaggi» e si concluderanno con «Mercati e istituzioni». Specialisti di vario segno impegnati a rimeditare tutte le possibili componenti di un fenomeno di lungo periodo - società agricola sottostante, parallela o a cavallo dello sviluppo industriale - sono in grado di fornire all'Europa del '92 un contributo rigoroso e articolatissimo sulle dinamiche produttive del nostro Paese. Attenti però a non lasciarsi distrarre dal suono didascalico del titolo o a supporre nel disegno dell'opera una moderna versione del De re rustica di L. G. M. Columella, anche se Columella, magari insieme a Varrone, antichi maestri di agronomia, sarebbe forse lieto di ringiovanire di un paio di millenni nella sua nicchia e di assumerne il patrocinio. Qui storia dell'agricoltura italiana sta piuttosto per storia della cultura in senso globale nelle aree geografiche che ci concernono, con marcata pronuncia economica e civile, assetti fondiari e valori simbolici espressi dalla cosiddetta civiltà contadina. Non solo dunque angustie, rassegnazioni e divina provvidenza sulle facce di braccianti, di coloni e affittuari in faticoso processo di affrancamento; non solo terre magre e impervie, cascine e masserie protette dalle immagini dei santi patroni e il calendario di Frate Indovino accanto al ritratto del bovaro, del vergare. Non solo, si vuol dire, liquidazione di tenaci luoghi comuni e autenticazione di un campionario umano e ambientale che troppo facilmente riteniamo prossimo all'«idiotismo della vita rurale», ma altresì analisi e ampio riscatto della cellula originaria tuttora attiva della struttura sociale - la famiglia coltivatrice - e radiografia di quella che a Piero Bevilacqua, nel suo ammirevole saggio introduttivo, appare «una delle più rapide e drammatiche riconversioni antropologiche dei nostri tempi», ossia la flessibilità, la tempestività dei lavoratori dei campi sarà lui a impostare e via via imporre l'immagine e la filosofia dell'Aeronautica italiana: audacia, spericolatezza, imprese di enorme risonanza internazionale, grandiose parate, record a piene mani. Ma sotto le tricolori fumate un tenace arrosto di improvvisazione, caos tecnologico, dilettantismo organizzativo. Quando l'Italia entra in guerra c'è questo splendido curriculum che il resto del mondo ci invidia, ma poco altro. Tutti quei ministri e generali e gerarchi che si sono succeduti alla guida dell'Arma, tutti quei tecnici e ingegneri e industriali cui pure il fascismo ha elargito mezzi eccezionali non hanno saputo mettere insieme uno strumento bellico all'altezza della situazione. Nessuno ha previsto gli aerosiluranti o gli aerei da picchiata, nessuno ha escogitato o perlomeno copiato gli armamenti, le corazzature, i carrelli, i sistemi di mira frattanto sviluppati in altri Paesi, nessuno sembra aver imparato niente dalla guerra d'Africa o di Spagna. C'è un'infinità di progetti, di prototipi, di modelli impostati, abbandonati, ripresi, falliti ai primi collaudi, con una dispersione allucinante di energie, sprechi vertiginosi, una produzione a singhiozzo dove ogni fabbrica fa per conto suo, fuori da qualsiasi coordinamento e razionalità. L'azzurro tenentino dei ro- manzi di Liala decolla perciò in l condizioni di schiacciante inferiorità tecnica e numerica, sapendo in pratica di volare incontro a morte certa. Questa la tragedia che si dipana inesorabile in Africa e in Russia, in Grecia e sul Mediterraneo, questi gli eroi - conradiani piuttosto che omerici - le cui gesta disperate Rocca rievoca con commosso puntiglio. Coraggio (anzi «fegataccio») e bricolage, la famosa attitudine nazionale a far miracoli con filo di ferro e tappi di bottiglia, a rattoppare, rimediare, «arrangiarsi» in ogni emergenza, e talvolta mettere a segno un «colpaccio» che lascia tutti a bocca aperta. Ma quanto siamo bravi, malgrado tutto. Quanto riusciamo a essere in¬ Gianni Rocca I disperati Mondadori pp.3l2.L. 32.000 lungo», l'ir coerenza organizzativa, la dispersione degli intenti, l'assurda moltiplicazione delle competenze, l'incapacità di apprestare < -<n buon anticipo piani attendibili che prevedano il meglio, il peggio, il cosi così. E' un elenco di carenze ben noto agli italiani di oggi, mandati in volo verso l'Europa con servizi pubblici obsoleti, un fisco confusionale, una magistratura indecifrabile, una proliferazione di enti che fanno tutti male la stessa cosa, un deficit più travolgente della 8a Armata di Montgomery, una mafia che dilaga come le divisioni russe sul Don, un esercito che non ha neppure una brigata autonoma da spedire nel Golfo. I meccanismi sono purtroppo assai simili e non diversa è la disperazione di quanti fanno nondimeno il loro dovere, costretti a battersi con armi impari confidando nell'iniziativa individuale, nella fortuna, nella sporadica alzata d'ingegno, e senza più avere nemmeno un duce con cui prendersela. Carlo Frutterò Franco Lucent ini