Parliamone di Giorgio Calcagno

LA NOSTRA LETTERATURA NON SA RIDERE Parliamone LA NOSTRA LETTERATURA NON SA RIDERE i N Italia si ride al cinema. Si ride qualche volta a teatro. Si ride, sia pure più a fatica, con i supplementi satirici. Si ride pochissimo in letteratura. Il riso - da quando gli ha dedicato un saggio Bergson - trova esegeti filologi ermeneuti glossatori spaccasintassi, produce inventari e bibliografie. Ma guai a essere coinvolti, davvero, con il comico; uno è subito out, squalificato. Frutterò e Lucentini pagano ancora oggi di fronte all'accademia la colpa di avere scritto libri divertenti. A del Buono tirano le pietre per avere dato il via a un sapidissimo volumetto di Gino e Michele, Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano (che scandalo, da Einaudi!). A Calvino si perdonano le jongleries del Visconte dimezzato e delle Cosmicomiche soltanto perché sulle sue pagine si possono avventare gli strutturalisti, con la curva di Greimas, i logaritmi di Trubeckoj, tutte le diavolerie del Circolo di Praga. Se in Italia nascesse un Woody Alien nessuno penserebbe seriamente di presentarlo al premio Strega. Si deve respirare molta noia, nel clan. Senza quella buona tetraggine, senza quegli educati languori di stomaco da salotto di nonna Speranza, sembra difficile ottenere il biglietto d'ingresso al rituale. L'ombra del petrarchismo è lunga, la dittatura di Croce ha lasciato il segno, in una letteratura di belle pagine, decorosa, nobile, che ha bandito il rischio della sorpresa. E il riso, ahimè, è per sua natura effrazione, rottura di equilibri, rivendica l'eterodossia dello sberleffo, chiede la libertà del non-sense. Ma non siamo noi la patria del Berni? Non sono nati in Toscana gli «umori», con i racconti di Anton Francesco Doni? Quegli oscuri grandi, relegati in seconda fila nelle storie letterarie, erano gli inventori della parola; garantivano, contro la precettistica delle buone maniere, il linguaggio duro, scheggiato e qualche volta un po' dissacrante, che ci veniva dal più alto modello. Salvavano, contro le troppo «chiare fresche dolci acque», la terapeutica violenza di «ed egli avea del cui fatto trombetta», un verso che condensa, nella sua musica eversiva, tutto lo spirito dell'Inferno. Petrarchisti arcadi neoclassici crepuscolari hanno congiurato per secoli contro la memoria del grande riso dantesco, la sorgente prima'della nostra poesia. Il comico è stato lasciato ai marginali, autoesclusi dalla loro stessa scelta. Altre letterature potevano inalberare i Rabelais e i Cervantes, gli Swift e i Gogol. Da noi gli umoristi, i giocolieri, i ribellanti di tutte le specie si sono trovati spinti nel ghetto del «genere minore», dal quale affiorano pochi nomi, meglio se post mortem: però, Campanile, che sorpresa, Longanesi, ah, quel Flaiano... E se provassero con Bufalino, qualche volta? Quello lampeggiante, battuto direttamente sull'incudine, degli aforismi. O con i bisbidis di Sanguineti? con i corvi di Toti Scialoja? i fulminanti di Patroni? Ottima idea, quella annunciata dal Salone del libro, di dedicare uno spazio all'umorismo. Anzi, se abbiamo capito, farne il centro della manifestazione. Purché non ci si fermi alle palinodie delle tavole rotonde; purché si voglia arrivare davvero al nervo del comico: che è difficile, ostico; e salutare. Forse in Italia non ci sono soltanto gli sceneggiatori di Alberto Sordi, i fornitori di battute per Beppe Grillo. Forse, perfino fra gli scrittori, chissà... Giorgio Calcagno

Luoghi citati: Italia, Praga, Toscana