UN PO' DI SOCIALISMO FA BENE AL CAPITALISMO
UN PO' DI SOCIALISMO FA BENE AL CAPITALISMO UN PO' DI SOCIALISMO FA BENE AL CAPITALISMO Un confronto tra Europa, Stati Uniti e Giappone TRA gli Anni 70 e gli 80 i cittadini dell'Europa comunitaria - a cominciare dai politici e dagli intellettuali - hanno dato origine a un fiume di recriminazioni in merito al relativo declino economico e tecnologico del loro gruppo di Paesi. Gli Usa dominavano nel campo delle nuove tecnologie; il Giappone si affermava con prepotenza nel settore di quelle tradizionali; mentre nell'Europa dei Dodici intere regioni, dall'Alsazia alle Midlands inglesi, conoscevano estesi processi di deindustrializzazione. L'unico futuro prevedibile per l'Europa pareva quindi riservarle stagnazione e dipendenza, se non vera e propria sudditanza economica e politica, dalle due grandi potenze dell'Ovest e dell'Est. Una parte del declino era reale. L'Europa aveva veramente perso, nei decenni seguiti alla ricostruzione, più di un treno tecnologico. Tuttavia una parte rilevante del presunto declino era imputabile alla carenza di confronti adeguati fra i tre attori della vicenda. Adesso l'Europa ha recuperato parecchio terreno in diversi settori dell'industria e del terziario, grazie alla sua crescente integrazione e agli specifici punti di forza che cia¬ sia gli americani che gli europei nella industria automobilistica. Ma l'Europa continua a presentare un vantaggio tecnologico relativo in molti settori che vanno dalle macchine utensili alla componentistica, dai sistemi di processo alla tecnologia nucleare, dalla chimica all'industria farmaceutica. Questo vantaggio relativo trova la sua spiegazione in una quota globale di investimenti in ricerca, da parte dei privati e degli Stati, che quando sia comparata con i dovuti accorgimenti non è tangibilmente inferiore a quella statunitense o giapponese. Una seconda considerazione riguarda le particolari basi della forza presente e futura dell'Europa. L'Europa comunitaria è ormai un gigantesco sistema economico relativamente unificato, formato però da una miriade di sottosistemi profondamente eterogenei. In esso convivono a fianco a fianco il dirigismo statale all'italiana e quello alla tedesca, il liberismo inglese e la regolazione post-fordista alla francese, le megacorporations olandesi e le piccole imprese della Val Padana, il sindacalismo conflittuale e quello neocorporativo, il pesante apparato neoindustriale della Germania e la levitante società neoterziaria dei danesi o degli svedesi. Ciascun sottosistema economico scun Paese presenta; ma soprattutto sono disponibili in copia crescente studi rigorosi i quali, seppur non ribaltano il quadro da tutto nero a tutto rosa, permettono di guardare alla posizione dell'Europa in termini decisamente più equilibrati. Tra questa letteratura rincuorante per l'Europa si inserisce con autorità il denso volume curato da Antonio Ruberti, docente universitario e ministro dal 1987 per l'Università e la Ricerca scientifica e tecnologica, al quale hanno collaborato numerosi tecnici, sociologi ed economisti, tra i quali il compianto Franco Momigliano. E' un'opera dalla struttura complessa, fittissima di argomenti e di cifre, dalla quale mi pare emergano tre indicazioni principali. La prima: al momento attuale ciascuno dei tre attori in campo possiede punti di forza e di debolezza al tempo stesso. Gli americani continuano a mantenere il primato nella progettazione e sviluppo delle tecnologie elettroniche di punta, mentre i giapponesi li hanno sopravanzati nella produzione di massa dei componenti elettronici standardizzati. Inoltre bisogna riconoscere che sul piano dei costi di produzione e della rapidità con cui riescono a introdurre nuovi modelli, essi battono ormai
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