CANTAMI DIVA: '0 SOLE MIO di Ferdinando Camon

CANTAMI DIVA: 'O SOLE MIO CANTAMI DIVA: 'O SOLE MIO Tanta Napoli e poco Omero nell'ultimo romanzo di De Crescenzo Uno scugnizzo tra dèi, eroi e amori al tempo della guerra di Troia CHI ha detto che Elena, Elena, amore mio funziona come introduzione alla mitologia greca, e che questo brioso, leggero, rasserenante romanzo di De Crescenzo (Mondadori, pp. 296, L. 28.000) racconta in modo nuovo le stesse storie che abbiamo già sentito altre volte? Crederlo significa far torto alla intelligenza e alla verve di De Crescenzo, che è anzitutto un inventivo. L'Iliade canta l'«ira», l'Odissea l'«uomo», e De Crescenzo se stesso: l'inconciliabilità tra il nuovo libro di De Crescenzo e i racconti omerici è già nella loro prima parola. Questo è dunque un libro autobiografico: il risultato degli sforzi, non per condurre il lettore a una dozzina di secoli avanti Cristo, ma per trasportare Elena e Agamennone e Ulisse, insomma Omero, dentro Napoli, i rioni, le strade, i quartieri, le risse, la guerra per bande, i proverbi, la filosofia, le canzoni della Napoli d'oggi. Il racconto omerico è da De Crescenzo chiuso in una cornice che lo attualizza e lo interpreta: la storia comincia e si conclude col giovane Leonte, creatura decrescenziana e non omerica, che cercando il padre perduto s'innamora di Ekto, che è il doppio innocente di Elena, l'altra metà del simbolo- donna. Il simbolo era una tessera (una mano d'argento, un anello d'oro...) che i due ospiti si dividevano al momento di lasciarsi; se in futuro, reincontrandosi, riuscivano a fare combaciare le due parti, avevano la prova di esser già stati ospiti. «Simbolo» vuol dire «incontro». Di per se stessa nessuna metà del simbolo aveva senso compiuto. Quindi non Ekto, e non Elena: la vera donna è la somma delle due, la santa e la peccatrice. «Peccatrice» è termine altamente improprio per il mondo greco, segnato dall'assenza del peccato, del «nostro» peccato; ma poiché qui non è l'autore che ritorna al mito greco, ma il mondo greco che vien portato nel tempo dell'autore, carico di malizia, ecco che quel mondo diventa una sequela di peccati: gli eroi sono «ladri, assassini e stupratori», Elena una «puttana», Zeus un «gaudente», Ulisse un «antisportivo». Afrodite, già che ci siamo, «miss Universo». «Leggendo i miti - spiega De Crescenzo con una dolce menzogna - ci si rende conto subito che i Greci concepirono gli Dei a loro immagine e somiglianza: li fecero invidiosi, pettegoli, prevaricatori, egoisti e vendicativi. Le Dee le immaginarono (se possibile) anche peggiori: in altre parole, più simili a vajasse napoletane che non a simboli di umane virtù». E in nota: «Vajassa viene da "vascio" e vuol dire "donna abitante del basso"». Calati in un «basso» napoletano gli dei e le dee, tutta la storia, che è essenzialmente storia dei loro rapporti, diventa una sequenza di scontri più verbali che militari, alterchi e risse di rione, da finestra a finestra. Anche gli incolpevoli e ingiudicabili amori degli dei diventano colpevolissimi e pregiudicati amori da appartamento, amori cattolici: «Alla fine del rapido incontro la bella [che è poi Afrodite] sgusciò via in silenzio, così com'era entrata, e prima di sparire gli disse: "Ciao amore: è stato bellissimo. Però, mi raccomando: non dire niente a nessuno"». Gli dei terrestri della religione greca («Soffrono, godono, urlano e si arrabbiano come partecipassero a una riunione di condominio») diventano così gli dei dell'infanzia di De Crescenzo, cioè i santi della religione napoletana: «Gli dei della mitologia classica non sono molto diversi dai santi della mia infanzia, quelli ai quali ero solito rivolgermi quando vivevo a Napoli». Segue l'elenco: San Gennaro, Sant'Antonio, Santa Lucia, San Cristoforo, San Pasquale Bailon... La pace tra Agamennone e Achille, sul cadavere profanato di Patroclo, si trasforma in una «pax napoletana»: «"Dimentichiamo il passato, o Pelide!" propose Agamennone tendendogli le mani. "Ormai chi di noi due ha ricevuto qualche vantaggio lo ha ricevuto, e chi ha versate lacrime amare le ha già versate". Se avesse continuato dicendo: "... basta ca ce sta 'o sole, e basta ca ce sta 'o mare, 'na nenna a core e 'na canzone pe' canta", avrebbe, in pratica, cantato Simme 'e Napule paisà». Così impostata, questa personale Iliade di De Crescenzo ha come eroe centrale non più il Pelide Achille ma il proletario Tersite, trasformato da disfattista dell'età eroica a ideologo pacifista dell'era pannelliana. E così, se gli eroi dell'età aristocratica sono ridimensionati attraverso un processo di ironico svuotamento di ogni connotazione sublime, Tersite, tipico rappresentante dell'età del popolo, è gonfiato con l'iniezione di assunti ideologici dei movimenti post-borghesi, l'obiezione di coscienza, il pacifismo, l'internazionalismo. Il risultato finale è una rivisitazione giocosa, gioiosa e godibile del mondo degli eroi visto da quel particolare popolo che è il popolo napoletano, del quale De Crescenzo si presenta come uno dei più festosi e divertiti interpreti, carico di memorie e di umori. Operazione condotta con indubbia intelligenza e abilità. Da godere come tale, però, non in rapporto o in sostituzione del vero Omero. E questo lo si aggiunge perché il libro, ce lo assicura ripetutamente la tv, è già stato adottato in numerose scuole: sarebbe un guaio se lo leggessero come un modo, magari ritenuto l'unico possibile oggi, di avvicinarsi a Omero. Perché in realtà una operazione del genere, se di De Crescenzo rivela un altro strato del deposito interiore, memorie, storie, cultura, morale, di Omero perde gli eroi, le battaglie, gli dei, le donne, i costumi, la religione: praticamente tutto. Ferdinando Camon Il ratto di Elma (Affresco di Giulio Romano, Palazzo Ducale di Mantova)

Luoghi citati: Mantova, Napoli, San Cristoforo