Su tre pareti la borghesia del '400

Su tre pareti la borghesia del '400 Su tre pareti la borghesia del '400 FIRENZE | ' INQUE anni per farli, setI te per restaurarli. Ma 1 i adesso gli affreschi del \À] Ghirlandaio in Santa Maria Novella, uno dei maggiori cicli fiorentini di fine '400, ritrovano colore e luce, senza perdere i loro cinque secoli di storia. Riemergono puliti per raccontarci l'affascinante lavoro di quell'abile capobottega, che dominava la piazza di Firenze negli Anni 80 del '400, Domenico Bigordi (1449-1494), detto Ghirlandaio per le ghirlande che il padre orefice faceva alle donne fiorentine. Tre enormi pareti della cappella maggiore, allora di patronato dei Tornabuoni, ripresentano nitido il volto della società borghese del tempo, sotto il titolo di Storie della Vergine e del Battista: mercanti e mercantesse, intellettuali, poeti, ci guardano dalle finte cornici, inseriti in spaccati urbani, interni di case di Firenze architetture classiche e rinascimentali. E sullo sfondo rovine romane, pianure, colline, animali, proprio come aveva voluto il committente, Giovanni Tornabuoni. Un volto arrivato a noi camuffato da fumo e grasso, minato dalla solfatazione. Le cause del degrado: l'acqua piovana, colata per anni dal tetto, agenti inquinanti, interventi di restauro non sempre imbroccati, da quello settecentesco del Veracini, prodigo di grossolane ridipinture, all'ultimo del 1963-8 del Dini, dannoso per l'uso di resine sintetiche. I cantieri dei miracoli Nel 1984 comincia il restauro, prima sulla parete di fondo, poi sulla destra e infine, nell'89, sulla sinistra, finita ma ancora impalcata. Curato dall'Opificio delle Pietre Dure con un metodo collaudato: analisi fisiche e chimiche per ogni centimetro di muro, preconsolidamento, pulitura con carbonato d'ammonio, fissaggio con idrossido di bario. Copenaghen sfida Parigi e Londra per posatene e mobili d'epoca, e anche in Italia vince con i suoi prezzi Un'impresa, che attende ancora qualche intervento pittorico e il restauro della volta, rimandati a tempi successivi. Ma non unica a Firenze, dove dall'88 è aperto in Duomo un grande cantiere per il restauro del Giudizio finale dipinto nella cupola del Brunelleschi da Giorgio Vasari e Federico Zuccari: 3200 metri di superficie a 90 di altezza, oltre 20 restauratori su un ponteggio di 16 piani. Presto comincerà anche la pulituria della preziosa Adorazione dei Magi di Benozzo Gozzoli, affrescata nel 1495 in una cappella di Palazzo Medici Riccardi, già tutta impalcata. Il ciclo di Santa Maria Novella, molto complesso, dipinto in tempo di record, era stato ordinato al Ghirlandaio dal mercante fiorentino Giovanni Tornabuoni, ricchissimo e imparentato con i Medici. Nell'atto di commissione del 10 settembre 1485 il mercante descrive minutamente le «squisite e ornate pitture» che devono celebrare la sua Casa nella grande cappella: 7 storie della Vergine sulla parete di destra e 7 del Battista sulla sinistra, scene e figure sul fondo e sulla volta, finti pilastri, colonne, capitelli. Si raccomanda che il pittore dipinga «a fresco» e usi ottimi colori come gli azzurri «fini» e «ultramarini». Esige che ogni disegno preparatorio gli sia sottoposto ed ordina al maestro anche un grande dipinto d'altare (oggi diviso tra vari musei), il disegno per l'ampia vetrata sul fondo e per il coro ligneo. Tutto deve essere finito nel maggio 1490, per il prezzo altissimo di oltre 1100 fiorini d'oro larghi. Il Ghirlandaio ce la farà, con una proroga di soli sei mesi. Gli affreschi che oggi vediamo rispecchiano fedelmente il programma iconografico del mercante: tre registri sovrapposti con due scene ciascuno per le due pareti con Storie della Vergine e del Battista. Grandi cornici con finti pilastri, che inquadrano gli episodi. Qualche variazione, concordata certo col Tornabuoni, sulla parete di fondo, dove compaiono una grande Incoronazione di Maria, fatti biblici e in basso i due ritratti dei committenti: il compunto mercante e la moglie Francesca Pitti, raffigurata dopo la morte. Spicca la data: 1490, che segna il momento conclusivo dell'opera. ■ La tecnica, messa in luce dal restauro, è ottima e tradizionale, il «buon fresco» del Cennini. L'organizzazione del lavoro, quella di una grande ed evoluta bottega: il progetto è del Ghirlandaio, che si trova ad affrontare una vasta superficie. Disegna tutte le scene in decine di fogli, oggi sparsi tra gli Uffizi e Musei d'Europa, elabora i grandi cartoni finali da appoggiare e tradurre sulle pareti. La cronaca segreta Cartoni che, posati inizialmente per intero sui muri, creano difficoltà e finiscono per essere tagliati in corso d'opera in pezzi più piccoli corrispondenti alle scene da dipingere, per facilitare la trasposizione dei disegni sui muri. A posarli sono i molti collaboratori, ciascuno col suo metodo (spolvero, incisione, corda battuta), che dipingono anche gran paite delle scene superiori, II e III registro. Al Ghirlandaio, spettano invece le fasce inferiori, ben visibili, con scene come la Nascita della Vergine o UApparizione dell'Angelo a Zaccaria, ricche di ritratti di grande realismo, che faranno scuola nel '500: dai membri Tornabuoni alla famiglia del pittore, da filosofi come Ficino a poeti come Poliziano. Sono suoi anche molti sfondi, nati da ricordi romani. L'indagine sulle pareti ha individuato molte «mani» di pittori, che ancora tuttavia non riescono a identificarsi nei numerosi nomi di aiuti, tramandati da Vasari nel '500, tra cui i fratelli di Ghirlandaio, Davide e Benedetto, il cognato Sebastiano Mainardi, e forse il giovane Michelangelo. Si scopre anche un curioso pittore anonimo, già definito dei «manichini», autore di piccole e snelle figure sui fondi, attivo con Ghirlandaio anche in S. Trinità. Il tipo di colore è quello tipico della tavolozza a fresco, bianco di San Giovanni, ocra, preziose terre verdi, azzurri come lo «smaltino» o il prezioso lapislazzulo. Il modo di stenderlo, in veli sottili e sovrapposti, dai chiari agli scuri, facendo probabilmente uso di modelli colorati, visto l'effetto armonico e omogeneo. Nonostante le sue grandi imprese, il Ghirlandaio non possiede una monografia recente. Cresciuto nella bottega del padre orafo, e poi discepolo del Baldovinetti (ritratto negli affreschi), si forma accanto a grandi fiorentini come Andrea del Castagno, Verrocchio, guarda ai fiamminghi. Esordisce in Toscana (Cecina, S. Gimignano, Firenze), con affreschi e tavole, ed è anche «maestro di mosaico». Ma è a Roma, dove lavora alla Sistina nei primi Anni 80 con Botticelli, Perugino, Bartolomeo della Gatta, che mette a punto il suo linguaggio, studiando l'antico. «Ritraendo anticaglie di Roma, archi, terre, colisei, aguglie, anfiteatri e acquedotti, era sì giusto nel disegno che lo faceva a occhio e senza regolo», scrive nelle Vite Vasari, che lo ritiene «uno dei principali ed eccellenti maestri dell'età sua». Ricercatissimo al ritorno a Firenze, si impone come pittore della classe emergente, con la grande bottega in cui lavorano fratelli e cognati e porta a termine con velocità grosse decorazioni in S. Trinità e S. Maria Novella. Dal 1490 al '94 lavora per il Duomo di Pisa. Dalle rare e curiose testimonianze, scopriamo i suoi movimenti: invii da Firenze a Pisa di «corbelli con colori e un sacchetto di panni suoi», acquisti per 6 lire a Pisa da un certo Bacchio cartaio di «venti quinterni di fogli reali per fare i disegni», fughe dalla città «per fare il carnesciale a casa...». E' la cronaca segreta, la più vera. Maurizia Tazartes