Arafat a sorpresa: «Non pretendo per trattare che Israele accetti l'idea dello Stato palestinese» di Igor Man

MEDIO ORIENTE la mappa del disordine Arafat a sorpresa: «Non pretendo per trattare che Israele accetti l'idea dello Stato palestinese» MEDIO ORIENTE la mappa del disordine LA Guerra del Golfo è cominciata esattamente due mesi fa, il 17 di gennaio dell'anno di grazia 1991, secondo il calendario gregoriano, il 17 Rayad nell'Anno 1411, secondo l'Egira. In Italia erano le ore 0,15 quando a «Studio aperto» Emilio Fede ha avuto la notizia da New York, in diretta da Silvia Kramar che parlava con lui tenendo d'occhio la Cnn. La guerra cominciò con un paradosso: tre giornalisti americani, e quindi nemici, trasmettevano dalla loro camera del Rashid Hotel con un telefono cellulare agganciato al satellite. Trasmettevano raccontandoci gli «effetti speciali» d'una sorta di prova generale delle «guerre stellari» tanto fantasticate da Reagan. Quegli «effetti speciali» altro non erano che il primo d'una serie terribile di devastanti bombardamenti americani. Ebbene, nessuno sbirro dei tantissimi che affollano il Rashid corse a tappar la bocca ai tre moschettieri della Cnn, a sbatterli in galera. Il 9 di giugno del 1967, dopo che Nasser, sconfitto, annunciò in tv le dimissioni, il sottoproletariato egiziano esplose dalle viscere antiche del Cairo per plebiscitare il suo raìss. Allorché trapassando miracolosamente la immensa folla disperata, arrivammo in albergo, io, Dino Frescobaldi, Arminio Savioli, Bernardo Valli, Sandro Viola fummo pregati di ritirarci nelle nostre camere. I giornalisti americani, invece, che pure non erano, almeno direttamente, in guerra con l'Egitto furono internati in un albergo sul Nilo, subito circondato da un triplice anello di poliziotti e militari. Altri tempi. Altra guerra. Quella del Golfo l'abbiamo perloppiù ascoltata e poco, assai poco vista. Una guerra che Peter Arnett ci ha fatto indovinare a spizzichi e a bocconi grazie alla interessata permessività irachena e che i nostri giovani colleghi han cercato, a loro volta, di indovinare censurati com'erano dagli americani, resi paranoici dal fantasma del Vietnam. Il generale Neal è riuscito a mettere la museruola persino a Oriana Fallaci. Una volta, noi della generazione di Oriana, vivevamo la guerra, c'eravamo dentro, sicché potevamo raccontarla ai nostri lettori, potevamo dar testimonianza, dal Sinai, dalle risaie del Vietnam, da Beirut, dal Salvador, degli infiniti orrori dei quali è sferruzzata la guerra, degli immensi dolori, della vigliaccheria e delle generosità, del coraggio degli uomini costretti a farla e subirla. Oggi è diverso: la guerra è politica fatta con le armi, anche con quella, stupida, della censura. E se la politica è l'arte del possibile, questa volta è divenuta il forcipe dell'impossibile. Bush l'imbranato [wimp], ovvero «wishy washy George» come lo definivano alcuni giornali americani, ha dimostrato d'aver carattere, grinta e senso storico. E infatti, pur avendo hitlerizzato Saddam e invitato più volte il suo popolo a rovesciarlo, ha saputo non cedere alla tentazione di far fuori il dittatore cheap. S'è fermato a meno di duecento chilometri da Baghdad nel pieno rispetto delle 12 risoluzioni dell'Onu che prescrivevano la liberazione del Kuwait non l'eliminazione di Saddam, lasciando così il raìss impiccatore di ebrei e di comunisti in sella. Perché lo ha fatto? Non certo per generosità ma per almeno due buoni motivi oltre a quello di cui sopra. Perché è forse meglio un Saddam vivo e, per tanto, dimezzato, che un Saddam «caduto sul campo dell'onore» in lotta contro «gli infedeli» e, come tale, destinato a divenire il martire della causa araba, un nuovo Nasscr. Perché risparmiando Saddam e, contestualmente, il regime baasista, Bush ha risparmiato a Gorbaciov, «ostaggio» dell'Armata Rossa, sin dal primo momento schieratasi con Baghdad, una umiliazione che avrebbe forse pregiudicato irrimediabilmente la sua già precaria leadership (tuttora in pericolo). Sennonché a dispetto degli aiuti morganatici di alcune forze speciali non soltanto iraniane, gli sciiti e i kurdi in rivolta non sono riusciti a tutt'oggi a far cadere Saddam. Questo fatto rende visibilmente nervoso Bush. Il presidente non vuole e non può rimanere en attendant Godot, ad aspettare in eterno il colonnello, o il generale, «serio, forte e moderato» che una volta finito Saddam si metta a trattare con gli Stati Uniti, e coi suoi alleati arabi, quella pace senza della quale non sarà possibile costruire il «nuovo ordine» solennemente annunciato da Bush urbi et orbi. Se Bush è nervoso, i suoi alleati arabi sono nervosissimi. Gli andrebbe magari bene un Saddam dimezzato o meglio ancora un nuovo raiss facile da addomesticare ma paventano il tajaziaa, vale a dire lo smembramento dell'Iraq dal quale si arriverebbe, attraverso un fatale processo di libanizzazione, al taqsin cioè alla divisione, addirittura, del territorio iracheno fra iraniani e turchi. Ma a togliere il sonno ai vari leaders arabi, moderati e non, è il pensiero che il farag, il vuoto politico che potrebbe aversi in Iraq, venga colmato dagli Stati Uniti. In questo caso finirebbero con l'avere ragione gli integralisti islamici che non si stancano di denunciare la Guerra del Golfo come una «guerra coloniale» scatenata dagli Usa in combutta coi «corrotti sulla terra Hosni e Fahd» al solo fine di affennare l'egemonia di Israele nella regione. La guerra è finita come doveva finire ancorché prima di quanto non ci si aspettasse. Il dopoguerra potrebbe risultare più lungo del previsto e questo sarebbe un guaio, non soltanto per i palestinesi. Poiché questa è veramente l'ultima e sola occasione per strappare una pace decente. Ma che accade, cosa scorre nel sottosuolo della mappa politica mediorientale? Arabia Saudita. Re Fahd col concorso del cugino principe Abdallah, l'uomo forte del paese, e del nipote, il principe Feisal, intelligente e fine Kissinger saudita, s'è mosso bene. All'alba del 2 di agosto tre divisioni corazzate irachene erano già nei pressi di Kuwait City, altre quattro puntavano sull'Arabia Saudita. Quattro ore dopo penetravano per sei mi¬ glia in territorio saudita. Tramite il telefono rosso, i sauditi chiamarono Baghdad: un alto ufficiale iracheno li tranquillizzò, s'era trattato d'un errore, non si sarebbe mai più ripetuto. Sei ore dopo, invece, ecco un'altra penetrazione; nuova telefonata alla quale, questa volta, risponde un semplice capitano. Non ne so nulla, richiamerò. A Ryad veniva intanto calcolato che le truppe irachene erano in numero sufficiente per occupare i campi petroliferi della provincia orientale nell'arco di sette ore; ne sarebbero bastate tre ancora per occupare tutto il Regno. Sei ore dopo ebbe luogo la terza incursione ma all'altro capo del telefono rosso nessun iracheno rispose. Sicché, quando il 3 di agosto gli Stati Uniti chiesero ai sauditi di chiudere la pipeline irachena, re Fahd anziché chiamare Baghdad decise di chiamare Washington. Io son disposto a chiudere la pipeline ma siccome gli iracheni ne faranno un casus belli bisognerà che voi mi mandiate un po' di gente in aiuto. E in fretta. Da qui la missione urgente di Cheney a Ryad e l'avviarsi del più grande trasferimento di forze della Storia da un capo all'altro del mondo. In quelle circostanze fu facile per re Fahd avere dalla sua gli Ulema e successivamente convincerli a concedere ai soldati «infedeli» di avere nello zaino la Bibbia o la Torah. Certo la promiscuità, ancorché discreta, dei vari riti religiosi celebrati nelle basi militari saudite, il contatto sia pure occasionale degli estroversi americani con i riservati, psicologicamente insulari, sauditi farà sì che l'Arabia schiuda la conchiglia della sua esclusività. Ma un proverbio arabo ammonisce che «la fretta è di Satana, la prudenza di Dio». Per adesso c'è da stabilizzare la regione partendo dalla soluzione della questione palestinese. I sauditi hanno sempre aiutato l'Olp. Anche finanziariamente. Spesso da soli. L'arabista David Holden scrisse di re Feisal, il padre dell'Arabia moderna: «E' un conservatore che guida il suo popolo all'indietro nel futuro». Codesta definizione calza come un guanto ai suoi successori che, pur avendo già conquistato tecnologicamente il Duemila, fanno politica secondo la flessibile logica atemporale del deserto. Ryad ha già ripreso a finanziare l'Olp. Egitto. 110 e lode a Mubarak. Ha forzato la mano ai suoi «fratelli» muovendoli contro l'arrogante e falso Saddam al quale non perdona di aver espulso un milione e passa di lavoratori egi¬ ziani dall'Iraq, dopo averli spremuti fino alla morte. Ha vinto la guerra con poca spesa e tanto guadagno: il pletorico debito con gli Usa è stato azzerato, arriveranno altri aiuti anche militari. La Lega Araba è tornata al Cairo, l'Egitto recupera il suo primato nel mondo arabo. Ma in un paese dove nasce un bambino ogni trenta secondi per rifondare l'economia ci vuole tranquillità. Fino a quando la tragedia palestinese non verrà risolta non ci sarà pace in Medio Oriente e Mubarak dovrà stare in guardia. Egli sa, come del resto re Fahd, che Sadat fu ucciso dagli integralisti perché «corrotto sulla terra». Non tanto per aver fatto la pace con Israele, quanto per essersi svenduto agli americani. Siria. Assad non sarà il Bismarck del Medio Oriente ma è senz'altro implacabile come un leone e abile come una volpe. Già «grande vecchio del terrorismo», s'è visto cancellare dal libro dei cattivi nello spazio di 48 ore. In cambio d'un drappello token (simbolico) di soldati al fronte (che applaudivano quando gli Scud colpivano Tel Aviv) ha avuto mano libera in Libano. Il paese dei cedri ha ripreso a produrre ricchezza anziché cadaveri, s'annunciano tempi buoni per l'agricoltura siriana da sistemare, per i debiti da ripianare. Di più: il suo rivale ideologico, il Saddam baasista come lui, è nella melma fino al collo. Kuwait. La ricostruzione non spaventa gli ex pescatori di perle diventati gnomi della finanza. Con 200 miliardi di dollari investiti in tutti gli angoli buoni della Terra, Italia compresa, con 40 miliardi di dollari liquidi, con riserve di petrolio per almeno cent'anni si possono avere tutti i soldi che serviranno a fare del Kuwait un paese efficiente e più che mai prospero. Solo che il vecchio Emiro sembra aver fatto il suo tempo anche se non vuole accorgersene. C'era una volta un parlamento in Kuwait, dovrà tornare. Assolutamente. La ripresa del Kuwait presuppone libertà di parola e una più equa distribuzione della ricchezza. Wp. C'è grande fermento. Arafat, forte del consenso dei palestinesi-doc, quelli sotto occupazione, dovrebbe poter preparare bene il prossimo CNP per avere da quel parlamento il voto di fiducia senza del quale gli toccherebbe rassegnarsi a regnare senza governare. La recente sortita di Bassam Abu Sherif (i confini dello Stato palestinese sono trattabili) è un chiaro segnale di disponibilità; non è la prima volta che Bassam fa da ariete, regolarmente smentito subito ma, successivamente, avallato dai fatti. Fu così alla vigilia del vertice di Algeri, nel 1988, quando Arafat riconobbe Israele, come esigevano gli americani. Ed ora il vecchio al Walid (padre) dalle sette vite dichiara a sorpresa di non pretendere, per avviare una trattativa, «che gli israeliani accettino l'idea di uno Stato palestinese». Certo, Arafat ha sbagliato puntando, sia pure «in stato di necessità», su Saddam, ma sembra volersi redimere e, poi, che forse Shamir non ha commesso «errori» sbianco spaventosi? Giordania. Sua Maestà Hussein, il 'piccolo re' sopravvissuto a 17 attentati e a quattro mogli conta di farcela anche questa volta. E' ridotto male in arnese con tanti palestinesi e integralisti, in casa, che alternano crisi depressive a manifestazioni di fanatismo vero e proprio; re Fahd gli ha tagliato i sussidi, non ha più il petrolio di Saddam ma sa che nessuna trattativa sarà possibile senza di lui. Sicché aspetta, dignitosamente, in portineria, di essere riammesso nel salotto buono. Israele. Questa volta la guerra l'hanno vinta gli americani (insieme con gli arabi), non Tsahal. E' qui la differenza. Ma Shamir non vuole restituire i territori e potrebbe persino provocare elezioni anticipate pur di guadagnare tempo. Ha ragione a chiedere che gli arabi riconoscano infine Israele ma non può pretendere che lo facciano prima ch'egli si degni di applicare le risoluzioni dell'Onu. Bisognerà, come scrivono i giornali americani, andar su due binari, di pari passo: riconoscimento da parte dei paesi arabi, trattativa con l'Olp. Non sarà facile ma ci si dovrà arrivare. Pena un nuovo sconquasso, questa volta fors'anche irrimediabile. La scelta è lacerante invero, ma è da tempo sempre la stessa: Israele Stato ebraico, democratico, in pace coi suoi vicini, o Israele ghetto atomico, Stato neocolonialista coi suoi figli condannati all'ergastolo dell'odio degli arabi. Questa, in sintesi, la mappa di quel disordine permanente, e crudele, chiamato Medio Oriente. Abbiamo lasciato da parte il Libano e il Maghreb. Ma soltanto per questa volta. E, poi, è un'altra storia ancorché intimamente connessa a quella, antica, chiamata Palestina. Igor Man La mappa di quel grande disordine permanente e crudele che viene chiamato Medio Oriente. Nella foto un cittadino di Baghdad a cavallo