La reggia di Kuwait
Rubinetti d'oro puro per l'emiro La reggia di Kuwait Rubinetti d'oro puro per l'emiro SETTE mesi di lusso provvisorio a Taif, in Arabia Saudita, sono ima bella prova. E allora sono comprensibili i capricci dell'emiro Jaber alAhmad al-Sabah che per un paio di settimane ha puntato i piedi e non si è schiodato dal suo esilio, nonostante la vita fosse tornata a scorrere a Kuwait City e Saddam Hussein avesse le sue gatte da pelare a Baghdad. Per oltre duecento interminabili giorni non aveva nemmeno potuto sfogliare, fresco di stampa, l'Independent, il suo giornale preferito che ogni mattina, assieme ad altre piccole gioie, un aereo personale portava da Londra. Da giovedì scorso, dopo aver baciato, infagottato nella sua kefiah, la terra dei padri, l'emiro, le cui disavventure hanno fatto dispiegare la macchina bellica più potente dalla Seconda Guerra mondiale, è di nuovo a casa. Per lui l'incubo è almeno parzialmente rimosso. Gli Stati Uniti gli hanno restituito il regno «chiavi in mano». Dopo aver inghiottito amaro per le sue bizze, la Casa Bianca, per evitare lo scandalo, gli ha fornito anche architetti, arredatori e giardinieri. Mentre la Lega delle Coop si offriva di ripopolare i supermercati senza più scaffali metallici, la gente faceva le code con taniche e bidoni della spazzatura per pompare acqua dall'unico serpentello di gomma collegato a un acquedotto funzionante e la folla si accalcava nei centri di distribuzione di zucchero e riso, Wayne Urbine, del Corpo Genieri dell'esercito Usa, coordinava i lavori di restauro a Palazzo Bayan, dove, da venerdì, l'emiro riposa. Per convincerlo a rituffarsi tra il suo popolo, un altro esercito, questa volta assoldato tra indiani e asiatici in genere, ha dovuto ripristinare, nella residenza temporanea della famiglia reale, lunghe file di candelabri, tutti in cristallo; nei bagni della reggia sono stati rimontati i rubinetti d'oro e il marmo di Carrara delle pareti e dei pavimenti è stato tirato a lucido. Ma all'emiro anche questo non bastava e così, una settimana prima che partissero gli aiuti alimentari d'emergenza per Kuwait City e si provvedesse a ricostruire le infrastrutture distrutte, camion carichi di tavoli con intarsi dorati, letti, sedie, posate d'argento e biancheria di fattura irlandese con i simboli della regalità kuwaitiana avevano percorso le strade ancora fumanti di battaglia. Con il primo convoglio di genieri erano già stati portati a destinazione i cuscini in tessuto intrecciato con fili d'oro e gli scrittoi cosparsi d'intarsi in pelle. A Palazzo Bayan, ne è garante Wayne Urbine, ora l'acqua è corrente e, volendo, anche calda. Mentre il governo del Paese liberato sta ancora aspettando le trecentomila mascherine da chirurgo commissionate alla Francia per alleviare alla gente i problemi di respirazione dovuti al fumo dei pozzi in fiamme, l'aria condizionata del Palazzo è perfettamente in funzione, e profumata. Kuwait City resta una città fantasma senza ancora luce, acqua e collegamenti, ma per fortuna l'emiro dorme tranquillo su propri serbatoi e grandi generatori per il riscaldamento e l'elettricità. Esclusi gli arredi fatti arrivare dall'Arabia Saudita, il tutto è costato un milione di dollari anche perché, tra la meraviglia, chi ha rimesso assieme i brandelli del Kuwait si è accorto all'ultimo minuto che gli iracheni in fuga qualcosa non hanno ramazzato: avevano sì strappato dalle pareti la tappezzeria in seta e asportato i piatti delle docce placcati in oro, ma erano rimasti intonsi i rivestimenti dorati di gabinetti, lavandini e bidet e sui camion in fuga non avevano trovato posto nemmeno i cestini della carta in marmo. Al Sabah ama il suo popolo ed è forse per questo che ha deciso di non rinverdire del tutto gli antichi splendori della reggia. Le fontane, infatti, resteranno per il momento senza pioggia dorata. Pier Luigi Vercesi
Persone citate: Al Sabah, Pier Luigi Vercesi, Saddam Hussein, Wayne Urbine
Luoghi citati: Arabia Saudita, Baghdad, Carrara, Francia, Kuwait, Londra, Stati Uniti
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