Il Bene trionfa troppo in scena? Dibattito in America di Masolino D'amico

Lieto fine ad ogni costo Il Bene trionfa troppo in scena? Dibattito in America Lieto fine ad ogni costo Re Lear e Rocky tinti di rosa fi I OM'E' finita poi ieri la I commedia?», chiese un I amico a Oscar Wilde, 1 j che aveva incontrato di-MixetmaLteatro. «Male - sospirò l'esteta -. I buoni venivano premiati, e i cattivi, che erano tanto più affascinanti, puniti». Il moralismo vittoriano non avrebbe consentito una soluzione diversa, ma anche oggi il cosiddetto lieto fine sembra prevalere, magari per ragioni diverse da quelle etiche. La conclusione sfacciatamente positiva di un film di universale successo come Pretty Woman, e quella a modo suo felice anch'essa, ma in una chiave meno rosea, di Alice di Woody Alien (con la protagonista che si libera dal lusso e prima va a aiutare Madre Teresa di Calcutta, quindi alleva i figlioletti nel Bronx) hanno rilanciato, in America, la discussione sui connotati dello «happy ending» nello spettacolo contemporaneo. Voltandosi a studiare le epoche del passato, sembra che la necessità di terminare le storie in modo lieto e rassicurante si manifesti ciclicamente. Gli Elisabettiani, per esempio, amavano i finali tragici, o perlomeno amarognoli come in certe commedie di Shakespeare; invece nell'epoca successiva, quella detta della Restaurazione (1660-1687), finivano «bene» anche le tragedie, e il Re Lear fu riscritto con Cordelia che sposa Edgar e il sovrano che si ritira a meditare in pace, insieme col fedele Kent. Questa necessità di chiudere col trionfo del Bene a ogni costo fu presa in giro, come si sa, da Molière nel finale assurdamente positivo di Tartuffe, con l'arrivo di una inattesa giustizia reale; e nell'Opera degli straccioni di John Gay (ripresa anche in questo da Brecht), con la grazia concessa all'ultimo momento aMacheath sul patibolo. Dollari per G.B. Shaw La Hollywood degli Anni Trenta diventò proverbiale per gli esiti zuccherosi delle sue commedie, imposti anche a storie che non li prevedevano: G.B. Shaw per esempio fu convinto a suon di dollari a lasciare che il professor Higgins sposasse Eliza in Pigmalione (come avverrà poi anche nel relativo musical, May Fair Lady), dopo che si era caparbiamente rifiutato di lasciare che ciò avvenisse nella commedia, un cui cardine è appunto il fatto che una volta realizzata la propria presa di coscienza, la ex fioraia lascia la casa del suo pur attraente educatore, perché sa che costui continuerebbe a sfruttarla; e preferisce sposare lo sciocco Freddie. Le nozze fra due persone brillanti e intelligenti, spiega Shaw, funzionano solo nella narrativa; nella vita è sempre meglio che nella coppia a comandare sia uno solo, non necessariamente l'uomo. Bisognoso di emanciparsi dai cliché d'oltreoceano, il giovane cinema italiano del dopoguerra aggredì con particolare vigore proprio quello del lieto fine a ogni costo. Quasi tutti i film neorealistici finiscono «male», con la morte dei protagonisti (la Magnani, Fabrizi e Pagliero in Roma, città aperta) o con la fine delle loro illusioni (Maggiorani non ritrova la bicicletta): e quando gli stilemi del neorealismo furono continuati nella commedia all'italiana, ribaltare la convenzione secondo cui il film comico deve finire in modo sorridente fu una prassi quasi costante. Cupo fu considerato dal preoccupato produttore - beninteso prima delle accoglienze da parte del pubblico - l'umore in cui Monicelli girava innovativamente / soliti ignoti, forse il primo film comico con un morto (Memmo Carotenuto); in segui¬ to la scomparsa violenta di un personaggio principale diventò consueta nei film brillanti di questo filone, vedi quella di Trintignant nel Sorpasso, o la fucilazione degli eroi della Grande guerra. Un pizzico di dramma Questo mescolare un po' di dramma alla commedia era talmente nell'aria, che entrò perfino nel tipo di spettacolo tradizionalmente più convenzionale e distensivo, la commedia musicale. Dopo avere causato scalpore facendo inopinatamente morire Paolo Panelli in Rinaldo in campo, Garinei e Giovannini seguirono la tendenza fino a far decapitare clamorosamente Nino Manfredi, eroe eponimo di Rugantino. Gli italiani avevano colto per primi qualcosa che evidentemente era per l'aria, che anche Hollywood tolse miele dai suoi film d'intrattenimento negli Anni 50 e 60, vedi in particolare le commedie sarcastiche del maestro Billy Wilder. Oggi mi sembra però difficile decidere quale sia la moda vt=gente. Una massiccia parte della produzione hollywoodiana è diretta al pubblico dei giovani, ma sarebbe meglio chiamarli bam¬ bini, per i quali vengono elaborate fiabe, sontuose e spettacolari, piene di effetti speciali e dotate di lieto fine a ogni costo, un lieto fine la cui improbabilità si è venuta facendo sempre più sfacciata. Per un esempio di questo crescendo ricordiamo il primo Rocky, che non sapeva di aprire un filone. Lì il protagonista Stallone era un povero diavolo di pugile che ottiene il suo traguardo massimo, quello di resistere per quindici riprese al campione del mondo: cosa abbastanza poco credibile, specie nei pesi massimi, ma che data la simpatia del personaggio gli si concedeva volentieri. Ma nel seguito Stallone non si contenta più, e il suo pugile sfigato diventa addirittura lui il campione del mondo, e nei vari episodi successivi difende vittoriosamente il titolo contro avversari sempre più imponenti... I film per adulti si distinguono da questo trend oniricamente ottimista proponendo invece finali tristi, o perlomeno smorzando con una scritta sovrimpressa sugli ultimi fotogrammi il nostro giubilo per l'esito in apparenza favorevole ai personaggi simpatici, vedi quella che appare sulla fuga di Kevin Costner e della sua sposa indiana al termine dell'appassionante Balla coi lupi. Qui la cosa è pienamente giustificata, il destino dei pellerossa è sotto gli occhi di tutti. In altri casi si ha l'impressione che gli autori temano, indulgendo al lieto fine, di rinunciare ad essere presi sul serio; in almeno un caso recente ho visto addirittura modificare in questo senso l'opera da cui era stato tratto il film. Penso all'elegiaco, elegante Viaggio del Capitan Fracassa di Ettore Scola, dove come altri lettori di Gautier ho atteso che dopo aver sfidato a duello il duca di Vallombrosa, il giovane barone di Sigognac si ricordasse del colpo segreto appreso nel castello avito dal vecchio servo Pietro, e se ne servisse per punire l'arrogante. Macché! Nel film il duca vince il duello, umilia il giovane, e si tiene la ragazza; e Sigognac si consola unendosi ai comici e decidendo che la finzione è più reale della realtà. Questo sarebbe piaciuto al surricordato Oscar Wilde, ma ha deluso profondamente me, ritornato per l'occasione spettatore medio e pertanto uscito dal cinema con la sensazione di essere stato defraudato. Anche il lieto fine, come si dice a Roma, quanno ce vo', ce vo'. Masolino d'Amico Sylvester Stallone in una scena del film «Rocky III»

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