Israele, cicatrici di guerra

Israele, cicatrici di guerra Lo storico Walter Laqueur racconta la vita a Gerusalemme Israele, cicatrici di guerra Nell'assedio, il ricordo del 1948 VGERUSALEMME ISITARE Gerusalemme in questi giorni riporta alla mente l'atmosfera Iche regnava in questa città nel 1948. Si vedono poche persone nella Città Vecchia, un volontario coprifuoco. Il vecchio Centro Commerciale di fronte al «Jaffa Gate», dove i negozi ebraici furono dati alle fiamme e dove, il 2 dicembre 1947, ebbero inizio tutti i guai, è stato raso al suolo ma i lavori di ricostruzione non sono ancora iniziati. Notre Dame, il quartiere russo, e la «Jaffa Road» non sono quasi cambiati. La «Ben Yehuda Street», distrutta il 23 febbraio 1948 da un attacco terroristico dei disertori britannici (49 morti, 140 feriti) è ora l'unica area pedonale di Gerusalemme. Gli artisti, pochi ormai, richiamano alla mente l'Arbat a Mosca, con l'unica differenza che a Gerusalemme predominano i musicisti. Prossima fermata, la «Kadima House». Un tempo la mia casa e, prima ancora, l'edificio sede, nel 1947, dell'Unscop, il comitato delle Nazioni Unite che propose la divisione della Palestina, Gli uccelli appollaiati sugli alberi che circondano l'edificio ancora eseguono il loro assordante concerto tra le cinque e le sei del pomeriggio. E nel tardo pomeriggio mi sono imbattuto in un gruppetto di persone in coda per le maschere antigas e mi sono unito a loro. I militari che distribuivano le maschere erano sorprendentemente gentili. Avevo capito come indossarla? Mi rendevo conto che avrei dovuto iniettare l'antidoto solo dopo che almeno due dei sintomi dell'avvelenamento da gas si fossero palesati in modo inequivocabile? Avevo manuali e video in amarico, russo, persiano, inglese ed altre lingue. Avevo bisogno di questo materiale? Ho detto loro che le maschere antigas erano state distribuite ad Haifa nel 1940 dopo l'entrata in guerra dell'Italia, ma non sono sicuro che mi abbiano creduto. Fu mio padre che mi parlò, per la prima volta, della guerra chimica, lui e le persone della sua generazione che erano stati testimoni durante la prima guerra mondiale. Me ne aveva parlato con orrore e io avevo letto il romanzo di Roger Martin du Gard I Thibaud, in cui la lenta morte di Antoine, un medico vittima del gas, viene descritta con profusione di dettagli clinici, ih modo intollerabilmente raccapricciante. Non avevo mai pensato che mi sarei trovato a indossare una maschera antigas. Dopo tutto, le maschere antigas non env no state usate nella seconda guerra mondiale - per lo meno, non come parte del conflitto. Per quanto brutte, le maschere antigas dei giorni nostri rappresentano un gigantesco passo avanti, se confrontante con i goffi aggeggi sviluppati nel corso della prima guerra mondiale. I testimoni e la maschera Allora i soldati erano obbligati a portarsi dietro un contenitore di carbonella, che serviva a filtrare il gas velenoso. Per non respirare dal naso, se lo dovevano tappare con una graffetta. Oggi non si parla più di graffette e carbonella ed i filtri' sono leggeri e facilmente inseribili. Tutti i cittadini, giovani ed anziani, sono stati invitati a portare sempre con sé le maschere antigas, in scatole di cartone. Sono gli onnipresenti simboli della guerra del 1991. Come a Londra in tempo di guerra, l'attesa in stanze sigillate e rifugi antiaerei entra a far parte del folclore. Per ora, le canzoni in circolazione («Saddam Ha'metumtambum, Bum, Bum») sono ancora lontane dall'emulare quelle che circolavano a Londra nel 1940. La radio trasmette incessantemente un motivo di successo del 1952, Sugar Bush I love You So, presumibilmente in segno di riconoscenza nei riguardi del Presidente degli Stati Uniti. Un ebreo di Baghdad, ripetutamente intervistato alla radio, afferma di essere stato compagno di classe di Saddam e ne parla come di uno studente pigro e poco intelligente, appassionato di lingua e letteratura araba. L'autenticità della storia è messa in dubbio da altri ebrei residenti in Iraq. Sono arrivati quasi mille giornalisti, per la delizia di tassisti e albergatori. Alla radio e alla televisione locali si fa un lavoro eccellente. Mai prima d'ora è stata disponibile una tale massa di informazioni, in così breve tempo. Che diversità dall'assedio del 1948. Allora una manciata di giornalisti cercava di fare il proprio lavoro in condizioni precarie, senza telefono, telegrafo, radio, completamente tagliati fuori dal resto del mondo per tre mesi. Alcuni utilizzarono persino dei piccioni viaggiatori per cercare di fare arrivare i propri articoli; due giornalisti tentarono di valicare le montagne di notte (uno fu ucciso, l'altro fu fermato dai soldati e rimandato indietro). Io scrivevo lunghi articoli tutti i giorni e ne affidavo copie a tutta una serie di persone che affermava di avere collegamenti con il mondo esterno. Ero sicuro che nessuno dei miei dispacci avesse mai raggiunto la meta. Ma alcuni mesi fa, mentre lavoravo ad una ricerca autobiografica, ho scoperto che molti di quegli articoli erano riusciti a passare ed erano stati pubblicati. Li sto leggendo ora per la prima volta - una «lettera aperta al generale Marshall», alcuni reportage dal fronte, alcune riflessioni personali - certo, non dei capolavori di giornalismo, utili, tuttavia, a ricatturare l'atmosfera della Gerusalemme assediata. Nel 1948, i negozi erano vuoti (unica eccezione, le compresse per la tosse «Penetro»), cibo e acqua erano razionati al massimo. Tuttavia, vi era una sensazione di euforia nell'aria, e io non sentivo né fame né sete. Le armi usate da entrambe le parti erano assurdamente inefficaci, secondo gli standard odierni: vecchi fucili, mitragliatrici leggere, una manciata di mortai da due pollici. La Legione Araba possedeva un paio di cannoni. Tuttavia, il numero delle vittime fu superiore a qualsiasi conflitto seguente. Il 18 gennaio 1948 scompariva senza lasciare traccia un'intera squadra di soccorso in missione a Kfar Etzion. Nella piccola Gerusalemme del 1948, tutti avevano un amico od un parente nel gruppo dei «35», come furono in seguito chiamati. Ci volle molto tempo per stabilire dove aveva avuto luogo l'imboscata. Oggi un solo elicottero basterebbe per una missione di soccorso. Allarme aereo nella sera La nostra «sala stampa» era una stanzetta nella «Ben Yehuda Street». Ogni giorno, all'ora di pranzo, Gershon Hirsh, divenuto famoso, in seguito, con il nome di Gershon Avner, primo portavoce di un governo che neppure esisteva, teneva una breve conferenza stampa. Si trattava di un'esercitazione puramente accademica, dal momento che non vi era modo di utilizzare le informazioni. Nato in Germania, Gershon aveva studiato ad Haifa ed Oxford, dove era stato eletto presidente dell'associazione studentesca. Uomo di grande intelligenza ed uno dei più attivi che io abbia mai conosciuto, divenne uno dei diplomatici di punta della propria generazione e, più tardi, decano dell'Università di Haifa. Avrei dovuto incontrarlo il 19 gennaio per parlare dei vecchi tempi. Mi telefonò per dirmi che sua figlia era in città e mi chiese se potevamo incontrarci nel suo appartamento la mattina seguente. Quando non lo vidi arrivare, gli telefonai. Era mancato dinante la notte. La sera seguente l'allarme aereo ci colse di sorpresa mentre parcheggiavamo la macchina. Non ci affrettammo, nessuno si affrettò. Non successe granché durante le prime incursioni; non succederà nulla neppure questa volta. Lo slogan del 1940, «Londra può resistere», può essere applicato ad Israele, oggi, nel 1991. Nel 1948, la Lega Araba agiva in base ad un codice d'onore, cavalleresco, in un certo senso, strano e ridicolo agli occhi di Saddam Hussein. Walter Laqueur Cittadini di Gerusalemme con la maschera antigas durante la guerra. Sopra, Walter Laqueur. Storico, sovietologo, sta lavorando a un libro sull'assedio della Città Santa nel 1948. Ha scritto per «Stampa Sera» questo diario sull'ultimo conflitto