America primo amore fra sceriffi e sospetti di Claudio Gorlier

America primo amore fra sceriffi e sospetti Fans, denigratori e falsi amici degli Usa America primo amore fra sceriffi e sospetti I raccontò una volta Saul Bellow che, nei giorni dell'intervento americano in Corea, si trovava in vacanza a Capri. Ansioso per la mancanza di informazioni immediate, turbato, si imbattè in due compatrioti, due sgargianti turisti, ai quali chiese se avevano notizie fresche. «No, e non me ne importa un fico», rispose uno di loro con un sorriso di compatimento. Allora - mi spiegava Bellow - provò una sorta di inatteso ma intenso impulso di patriottismo, di responsabilità personale. Prese il primo aereo e tornò a casa. L'episodio mi è venuto in mente constatando la ripresa di un generico anti-americanismo in occasione della guerra del Golfo, e cercando di analizzarne non emotivamente le caratteristiche, le quali non si riconducono soltanto a un nocciolo duro sbrigativamente definibile come di sinistra o, più in genere, di matrice politica. Insomma, se esiste una replica stolida, giustamente denunciata da Geno Pampaloni sul Giornale, del «Dio stramaledica gli inglesi» di Mario Appelius ai tempi del Minculcop, sussistono varietà diverse a livello internazionale, che affiorano in aree politicamente filo-americane tra persone inclini a legittimare proprio le scelte degli Stati Uniti. Mi sembra che si possano sintetizzare nella battuta come al solito brillante e insieme volutamente tendenziosa di Indro Montanelli quando afferma che il vero maitre à penser degli Stati Uniti è John Wayne. Qui il discorso da politico diventa più generalmente culturale e sostanzia un paradosso singolare che arriva da molto lontano, trovando consensi in Italia o in Francia, spesso anche in Inghilterra, in ambienti intellettuali o da parte dell'uomo della strada. Ossia, parafrasando ancora Montanelli, stiamo con gli americani ma tappiamoci il naso. In base a questo paradosso, può accadere spesso (e penso a una recente intervista di Asor Rosa) che un intellettuale di sinistra formuli dei precisi distinguo tra politica americana e cultura americana nei confronti della quale si dichiara in debito, mentre una personalità moderata o conservatrice ammette, più o meno implicitamente, che gli Stati Uniti sono un Paese cultu¬ Lo scer ralmente rozzo, istintivo, al confronto del primato culturale della vecchia Europa. Un simile atteggiamento mi ricorda una frase corrente in Inghilterra precisamente per ironizzare sulla superficialità dei cugini di oltre Atlantico: «Sbrigativa generalizzazione di tipo americano». Ripensiamo a taluni aspetti della fortuna di molti autori americani a partire dagli Anni Trenta. Si apprezzava in loro l'istintualità, l'immediatezza, il realismo brutale, magari la violenza, a fronte della raffinatezza, della complessità occasionalmente esangue, della cultura europea. Fu proprio Bellow, una ventina di anni or sono, a reagire in un saggio assai sottile contro questa etichetta, convalidata del resto da figure autorevoli della cultura europea, per esempio da André Gide. Ma il luogo comune ha resistito, al punto che un eroe western si prende una considerevole rivincita, che so, su Herman Melville e Emily Dickinson, sulla poesia di Walt Whitman e la narrativa di Henry James, sulla filosofia (che esercitò una considerevole influenza in Italia ai primi del Novecento) di William James o di John Dewey. Mostrate i muscoli e dateci Ombre rosse, che alla cultura provvediamo noi. Quando dico cultura non intendo limitarmi alla letteratura o alla speculazione intellettuale, ma mi riferisco a ciò che sommariamente si definisce modo di vita americano, al fast food e al rock. Rammento bene l'accoratezza determinata di un preside di liceo che tentava di scoraggiare i genitori dei suoi allievi dall'accettare borse di studio negli Stati Uniti, dove gli sventurati ragazzi sarebbero rimasti corrotti dall'edonismo imperante, dalla mancanza di valori genuini, dalla più sfrenata licenza sessuale. Su un ca piano meno schematico e ben più sofferto questo è il punto di vista di Solgenitsin, esule imbozzolato in una società che al fondo rifiuta e che sente profondamente estranea; ma sospetto che lo stesso Pontefice non la pensi molto diversamente di un mondo così tristemente desacralizzato. Il fatto curioso (e forse sospetto) è che dagli Stati Uniti una intera generazione ha preso a prestito il concetto di controcultura, di underground, di aspra contestazione del potere, culturalmente radicata in America sin dai tempi di Jefferson, e detestata in linea di massima dai più accesi compagni di viaggio dell'America nelle polemiche roventi delle ultime settimane. La stessa osservazione si può fare a proposito di una possibile, e deprecabile, cultura della guerra, denunciata vigorosamente fin dai tempi della guerra civile americana da uno che se ne intendeva, il generale Sherman: «La guerra è l'inferno», per tacere della memorabile «pace separata» che individualmente decide e fa sua il protagonista di Addio alle armi di Hemingway. Ecco: la equivoca lettura di Hemingway in chiave aggressiva, virile, strenuamente agonistica, costituisce uno dei punti fondamentali a sostegno del luogo comune. Può accadere che persone fortemente critiche dal punto di vista politico, una volta conosciuta la realtà concreta del Paese, si convertano esattamente agli aspetti più ordinari e banali del modo di vita americano. Conosco serissimi militanti sessantottini che, di ritomo dagli Stati Uniti, si profondono in elogi dell'efficienza delle poste, della varietà dei supermercati e delizie, ossia della più corrente sottocultura americana. Conviene peraltro ammonire Bellow a stare in guardia, più che dagli anti-americani dichiarati, da molti equivoci simpatizzanti. Dovendo individuare un protervo americano davvero classico, consiglio di rivolgersi all'indomabile capitano Achab del Moby-Dick di Melville. Deciso a condurre fino in fondo la battaglia contro la balena bianca (Saddam?), egli battezza metafisicamente il suo arpione nel nome del diavolo. Claudio Gorlier Lo sceriffo John Wayne, simbolo e mito dell'America