Si firma la pace, ma in Iraq è il caos di Mimmo Candito

Si firma la pace, ma in Iraq è il caos Il nostro inviato vicino a Bassora. Schwarzkopf: le nostre richieste sono state accettate Si firma la pace, ma in Iraq è il caos Cresce la rivolta anti-Saddam ALLE PORTE PI BASSORA DAL NOSTRO INVIATO Mentre la guerra americana finisce, comincia qui in Iraq la rivolta contro Saddam. Quattro province si sono ribellate, la gente ha preso le armi e ha attaccato i militari; si spara dovunque. «E io voglio arrendermi», diceva Karim, soldato di fanteria dell'esercito iracheno e se ne stava col suo Kalashnikov a chiedere al giornalista straniero incontrato sulla strada se, per cortesia, gli faceva il favore di prenderselo prigioniero. Siamo ben dentro l'Iraq, quasi 40 chilometri, già alle porte di Bassora; e Karim cercava di nascondere la sua uniforme sotto una giacca da contadino. Ha la faccia triste e timida. Uno gli dice che, veramente, ha altro da fare e che forse è meglio che lui continui a scendere sulla strada che porta a Sud, a incontrare gli americani. «Stai tranquillo, sono brava gente». In realtà, quando Karim tentava disperatamente di essere fatto prigioniero da me la guerra era già finita. Il cessate-il-fuoco lo avevano firmato da un paio d'ore il generale Schwarzkopf (affiancato da Khalid Bin Sultani, comandante delle forze arabe) e il suo collega iracheno, sotto una tenda montata a qualche chilometro da qui, nella base aerea di Safwan. L'incontro non era stato una festa, ma le due schiere di generali si manifestavano una distaccata cordialità. Uno era il vincitore, un vincitore da trionfo romano, da dominio perfino irridente; l'altro era la povera sconfitta di ambizioni insostenibili, uno sfascio che lo stesso paesaggio attorno alla tenda documentava con una drammatica evidenza. Dovunque carri armati abbandonati, camion e blindati in fiamme, trincee sfatte; e in alto, a ronzare, decine di elicotteri Cobra e Apache. La firma dei generali era formalmente un cessate-il-fuoco, in realtà era una dichiarazione di resa. «E' stato un passo importante verso la pace», diceva Schwarzkopf con tono soddisfatto, come ben si conviene a chi sfilerà per il Foro Romano. «Gli iracheni hanno dimostrato mia buona disponibilità, e tutte le nostre richieste sono state accettate», aggiungeva il generale, precisando che l'accordo raggiunto include la liberazione di tutti i prigionieri di guerra. Le truppe alleate saranno ritirate dal territorio iracheno, diceva Schwarzkopf, e aggiungeva che le due parti hanno concordato che i rispettivi schieramenti non vengano a contatto tra loro per evitare ulteriori incidenti. «Abbiamo ricevuto le informazioni richieste sulla localizzazione dei campi minati in Kuwait e delle zone di mare minate in modo che noi possiamo immediatamente dare avvio alle operazioni di sminamento». L'Iraq, intanto, è allo sfascio, peggio ancora del suo esercito. Sulla strada di Bassora, un povero contadino finge di essere arrabbiato contro lo straniero che sta andando in giro dentro il suo Paese; e gli fa segno che vuole tagliargli la gola. Tu allora che fai, scendi dall'auto, gli dici qualche parola in arabo e gli chiedi notizie della sua salute; e allora il fratello di abbraccia e ti racconta che il mondo sta davvero cambiando, che il tempo di Saddam è finito per sempre, e che la gente non ne vuol sapere più di lui, della fame, della disperazione, e di tutte le bombe che gli americani gli hanno fatto cadere sulla testa. Poi schiaccia sulla terra il tacco della sua vecchia pantofola. «Ecco, Saddam finisce così». La paura dei contadini I contadini incontrati sulla strada sono gentili. Scambiano saluti, stringono le mani, raccontano tutti le stesse storie. Hanno anche paura, vorrebbero parlare ma temono a farlo, e ti guardano con occhi di lunga pazienza. Si chiudono anche nelle spalle, come solo i poveri sanno fare. Tu stringi mani a destra e a manca, dai abbracci e sorrisi, assicuri che la vita è ancora lunga e che Allah è misericordioso. E' tutto quello che puoi fare, e quando te ne vai loro sono lì che si prendono affettuosamente la polvere dell'auto e però ti fanno ciao con la mano e ti dicono buona fortuna. Gli incontri con i soldati sono più cauti. Saluti da lontano senza abbassare il vetro del finestrino, scambi segni di evidente cordialità per vincere ìa loro diffidenza, e poi passi con finta indifferenza davanti alla loro postazione, ai cannoni puntati, agli ufficiali che ti guardano e non capiscono bene che cosa ci faccia uno con quella faccia lì in quel posto lì. Ma prima che abbiano deciso di approfondire l'indagine, tu hai già fatto quel centinaio di metri di terra battuta che ti salvano la pelle. Bassora è sempre più vicina, si vedono le prime case, già superata la raffineria. Sull'orizzonte si levano i fumi neri dei tanks che bruciano. Ogni qualche minuto, lontano, dietro di te, gli americani stanno facendo saltare in aria carri armati, depositi di munizioni, bunker; e la terra trema, brusca. Il cielo è basso. Siamo già nel pomeriggio. Per fare 180 chilometri di strada, da Kuwait City, ci sono volute sette ore. Ma la colpa non è dei check-points americani e inglesi, che anzi sono molto gentili e fìngono di non sapere dove tu stai andando quando tu gli spieghi che vai soltanto un poco avanti, a vedere il panorama. Il panorama è un campo di battaglia, con la terra piena di bombe e razzi inesplosi, di carcasse d'auto e di carri bruciati, dei cadaveri ormai gonfi di sole, grigi e neri sotto la folla di mosche sazie. La colpa del ritardo è tutta del fondo stradale, distrutto dalle bombe «clusters», dai bomboni che aprono crateri, dagli shrapnel che sono trappole d'inferno. L'auto buca le gomme tre volte; la sfortuna ritorna altre due vc£e. E allora ci prova prima una pattuglia americana di passaggio, che prende la misura della tua ruota distrutta e se ne va in giro a cercartene una tra le carcasse ammonticchiate dai bulldozer. Ne porta due, e però entrambe sono inutili, una è grande l'altra piccola. La pattuglia a questo punto dice «sorry» ma ha da fare, e se ne va. Allora si deve andare lungo la strada, sotto il sole, tra i cadaveri e le mosche a vedere se c'è qualche carcassa utilizzabile che abbia i pneumatici della stessa misura della tua auto. Uno diventa presto un esperto a forza di far prove, di bullonare e risbullonare; la pazienza e la costanza vengono premiate; e il giornalista si trasforma in ladro d'auto, usa crick e martello, riesce a sfilare la ruota che gli serve dall'auto distrutta da una bomba che si trova accartocciata accanto alla strada. Una strada vuota e silenziosa L'ingresso in Iraq è, come dire, piuttosto incerto. L'ufficiale che comanda la postazione più avanzata dei malines, giusto nel vecchio edificio della dogana sfondata dalle cannonate, ti chiede se davvero vuoi andare avanti; tu gli dici di sì e allora lui ti dà una scorta fino alla prima linea dei carri, a circa un chilometro; poi il sergente che è venuto con te gira la sua jeep e ti augura buona fortuna. La strada davanti è vuota e silen¬ ziosa. Nella luce immobile da tardo pomeriggio ci sono soltanto i cani che si muovono. L'Iraq non è poi molto diverso dal Kuwait che ti sei appena lasciato dietro. Carcasse di cannoni e di tanks, qui come là, e qui come là anche morti, macerie fumanti, povere case di mattoni sventrate dal fuoco che veniva dal cielo. Nessuna differenza c'è anche tra i poveri profughi che incontri lungo la strada, mentre pazientemente se ne vanno a piedi verso il Kuwait. Sono libanesi, palestinesi, egiziani, indiani, pakistani: lavoratori prigionieri impiegati in Kuwait; erano stati presi prigionieri dagli iracheni e portati in galera a Bassora. Ora sono stati liberati e tornano a cercare il loro vecchio posto di lavoro. Raccontano tutti la stessa storia: a Bassora c'è la rivolta, si è sentito sparare per un'intera giornata. «Il popolo si è stancato di Saddam e dei suoi uomini; e si è ribellato, gli ufficiali sono scappati e la rivolta è scoppiata. Ci sono morti, molti morti, tanti morti». Poi ti raccontano dei loro mesi d'inferno. «Era la disperazione e invece all'improvviso è arrivata la libertà». A Bassora si spara, come ad Amara, Zubayr e Rumaill. Cerco allora di entrare a Bassora, ma i contadini ti fermano, ti dicono che se fai un passo ancora trovi il blocco dei carri iracheni. Mimmo Candito Un kuwaitiano prega vicino a un pozzo di petrolio dato alle fiamme dagli iracheni

Persone citate: Amara, Khalid Bin Sultani, Schwarzkopf