Sanremo, dove osavano le colombe

Sanremo, dove osavano le colombe Il Festival nacque in piena guerra fredda: celebrava l'amor patrio e i buoni sentimenti, era inviso alla sinistra Sanremo, dove osavano le colombe Mamme, campanari, vecchi scarponi » jlUNZIO Filogamo è oggi un signore che confessa. ■ 92 anni e vive in un al- I bergo per anziani sulle II colline di Asti. L'età ne ha ridotto la statura e ingracilito il corpo, ma il viso è disteso, le guance lustre dopo la rasatura, il ciuffo riluce di un candore che forse è artificiale come il sorriso da fotografia. Veste di blu, con scarpe di coppale e porta al collo una sciarpa di seta bianca. Si appoggia a un bastoncello di lacca. Negli Anni Venti debuttò da attor giovane nella compagnia di prosa di Dina Galli. Negli Anni Trenta fu la voce più popolare e impertinente della radio: con l'erre moscia da gagà e il tono ambiguo interpretò «Av'amis, il moschettieve» nell'epocale rivista di Nizza e Morbelli ispirata al romanzo di Dumas e sponsorizzata dal leggendario concorso di figurine Perugina. Nel 1951 la radio lo mandò a Sanremo per presentare uno spettacolo cui pochi davano fiducia: il primo Festival della Canzone italiana. In sala non c'erano poltrone ma tavolini apparecchiati con gente che cenava. In quell'atmosfera disattenta da tabarin di lusso Nunzio Filogamo, che non s'era preparato alcuna battuta d'esordio, spalancò le braccia e strillò la frase della quale non si sarebbe liberato mai più: «Amici vicini e lontani, buonasera». Trascorsi quarantun anni, il Festival di Sanremo squaderna con orgoglio la propria vetustà. Grazie dei fiori, la canzone che Nunzio Filogamo proclamò vincitrice nel '51, ha fatto da sottofondo incessante all'edizione 1990. Quest'anno, nella congerie di intrattenimenti secondari che fanno da preludio alla fiera, il Casinò di Sanremo ha inserito straordinariamente nei programmi del Teatro dell'Opera anche un «martedì letterario» solo perché c'è un libro che s'intitola Vola Colomba, come lo slow premiato nel 1952. Il centro della città sbriluccica di lampadine a festoni, a cascatelle, a fiorami, che rifanno il verso alle fantasmagorie del dopoguerra, quando ci voleva poco a sbalordire gli occhi memori dell'oscuramento. E' tempo di nostalgie e chi ha memoria storica ringrazia pur sapendo quanto sia dissennato qualsiasi confronto tra il festival di oggi e quello delle origini. Il Festival della canzone nac¬ que tra le asprezze politiche successive alla vittoria democristiana del 18 aprile 1948, nel vivo della guerra fredda internazionale, e, per spropositato che possa sembrare, ne fu profondamente segnato. La cultura di sinistra (quella poca che si degnava di occuparsi di canzonette) usò la propria egemonia per tacciare la «gara canora» di intenti reazionari. Peggio ancora: di corrompere il popolo. La cornice stessa del festival, il Casinò di Sanremo in cerca di clienti, era sospetta: la canzone, | prodotto vero e consolatorio, scendeva da un palcoscenico dove Nunzio Filogamo in smoking elargiva baci sulla punta delle dita alle signore in abito da sera e ai gentiluomini con le tasche gonfie di fiches. Il popolo, per di più, ci cascava senza rimedio: imparava i motivi di Sanremo a memoria, li cantava nelle osterie e in bicicletta lungo le strade diacce dei pendolari, li suonava con la fisarmonica anche alle feste dell'Unità, scordandosi dell'impegno alla lotta. All'epoca gli studi sulla «autentica canzone popolare» erano accademici: i plotoni di intellettuali muniti di registratore non erano ancora partiti per le plaghe montane o le risaie a catturare vecchiette capaci di ricordare parole e motivi della cultura canora spontanea. La canzone di protesta e quella della «mala» erano di là da venire. Tuttavia si era già scoperto, con apprensione, che la musica del¬ le balere, della radio e dei cori intonati dalle comitive era «colta» anziché popolare e genuina: ossia affatturata dal «nemico di classe». Il popolo, si diceva sgomenti, non canta con la sua voce, bensì con quella della borghesia. E il festival di Sanremo fu giudicato d'acchito, dai più entusiasti tra i chierici della sinistra militante, il laboratorio, la fabbrica e la massima cassa di risonanza di una cultura musicale così di parte governativa, da essere sponsorizzata (ma la parola non esisteva) dalla Rai, fonte ufficiale dell'informazione e amministratrice della censura. A differenza di oggi - ed è una differenza radicale che annichilisce qualsiasi tentativo di confronto - la canzone non faceva spettacolo: contavano soltanto le parole, l'orecchiabilità della musica, la voce - solo la voce, non la fisionomia che non si vedeva - del cantante. Il Quartetto Cetra e il Duo Fasano, con il loro alternarsi al microfono, conseguivano il massimo dell'ardimento. Il successo di una canzone non dipendeva dalle persone che la ascoltavano attraverso la radio o i dischi ma da quanti la cantavano per proprio conto, avendone studiato i versi sul Canzoniere o, dal 1951, sui librettini Tutto Sanremo in vendita nelle edicole. Di una canzo¬ netta non si chiedeva «di chi è?» e meno che mai «chi l'ha lanciata?» bensì «che cosa dice?» o «di che cosa parla?». Si sa quant'è facile infierire sui versi occasionali d'una canzonetta, e bisogna ammettere che i componimenti destinati a Sanremo parevano fatti apposta per provocare il sarcasmo degli intellettuali. Ruotavano, spesso maldestramente, attorno ai luoghi comuni della retorica, talvolta gonfiandoli fino al paradosso. Letti attraverso quelle rime, gli italiani risultavano incapaci di pensare e di agire al di fuori del sentimentalismo dolcificato, saldamente ancorati all'amor materno (e per esten- sione alla famiglia), cattolici praticanti, lieti del loro lavoro per quanto balzano come quella dell'arrotino o sudicio come quello dello spazzacamino, saldi nell'amor patrio e costantemente afflitti da nostalgie per il passato. Molti scrissero che il Festival di Sanremo, in origine, fu la glorificazione canora della triade «Dio, patria, famiglia», valori eterni sì, ma anche logorati dalla recente esperienza fascista, stravolti dalla guerra e risbandierati dai partiti conservatori. Mamme di immarcescibile avvenenza spirituale (Son tutte belle le mamme del mondo) oppure precocemente incanutite nei veli vedovili («...una mamma bianca ed una barca nera»), donne contrite negli atti di devozione («Una donna che prega/una lampada accesa...»), reduci di mille battaglie («Vecchio scarpone / quanto tempo è passato / quanti ricordi fai rivivere tu») e valligiani col cappello alpino nell'armadio («Campanaro delle Sette Croci/per chi suoni la campana? / tra i ghiacciai dell'Adamello, avvolti in una bianca mantellina / hai veduto riapparir gli eroi d'un'epopea lontana») ottenevano certo un lasciapassare di favore per la ribalta del festival. Gli intellettuali attribuivano senz'altro il successo, innegabile, di questi patetici componimenti alle (opinabili) trame «corruttrici» dei mass media dell'epoca, all'incultura ruffiana dei verseggiatori borghesi, alla normalizzazione sociale imposta. Come se l'immenso e variegato pubblico che cantava lo facesse in trance oppure costituisse la nuova base militante della conservazione. Rimane emblematico il caso di Vola colomba. Vista da sinistra, la canzone forse più celebre di tutti i festival assieme a Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, riprendeva i principali temi contingenti della propaganda governativa di centro destra: i «rossi» comunisti jugoslavi appoggiati dal pei, attentano all'italianità di Trieste, città divisa. Un'onesta coppia di fidanzati è costretta così a separarsi. Chi dei due rimane a Trieste invoca dal Signore la restituzione della città alla madrepatria (si sa che il governo democristiano, proprio in quell'epoca, è lì lì per mandare sul confine una divisione in assetto di guerra) e sceglie, per pregare, la chiesa di San Giusto, monumento sacro all'irredentismo. Il primo verso della canzone, per di più, «Dio del ciel se fossi una colomba» riprendeva pari pari, con la sostituzione della colomba alla rondinella, quello iniziale di «Rondinella azzurra», inno non proprio ufficiale ma ben gradito agli aviatori di guerra in tempo fascista. In realtà Vola colomba fu accolta, ripetuta e custodita dal pubblico secondo tutt'altro verso. La questione di Trieste, per quanto contingente e stiracchiata a fini di propaganda da tutti i partiti politici, toccava nel profondo le coscienze degli italiani del dopoguerra anche senza agitarne i sedimenti nazionalistici. Situava in un luogo preciso l'angoscia della separazione violenta che la maggior parte degli italiani aveva vissuto per colpa della guerra e delle invasioni straniere, sia tedesche, sia angloamericane. Ricordava la perduta armonia della vita quotidiana scandita dagli affetti e dal pacifico impiego svolto in un luogo famigliare (noi lasciavamo il cantiere / lieti del nostro lavoro / e il campanon din don ci faceva il coro) in un periodo di cupa disoccupazione e di emigrazione forzata. Concludeva con quel «diglielo tu, che tornerò» che non significava soltanto uno spostamento da luogo a luogo. All'inizio degli Anni Cinquanta l'idea del ritorno invadeva ben altri spazi che quelli geografici o geopolitici. Superati gli anni più euforici e dissennati dell'immediato dopoguerra, gli italiani palpitavano nel desiderio di un ritorno all'unica serenità che avevamt vissuto: quella dell'anteguerra finita così catastroficamente. Dissolti gli incubi erano riaffiorati i ricordi. Sanremo li mise in musica. Gian Franco Vene Gian Franco Vene è l'autore di «Vola colomba», da 14 settimane nella classifica dei best-seller, che trae il titolo dalla canzone che vinse il Festival di Sanremo nel 1952. E' l'ultimo volume di una trilogia edita da Mondadori, che comprende «Mille lire al mese» e «Coprifuoco» | Immagini dal Festival del '57: sopra, Nunzio Filogamo fra Marisa Allasio e Fiorella Mari. Sotto, Gino Latilla, Carla Boni e il Duo Fasano cantano «Casetta in Canada» La roulette, i fiori, il microfono: è il manifesto del Festival 1955