Costner, l'uomo che volle farsi Sioux di Lietta Tornabuoni

Costner, l'uomo che volle farsi Sioux Presentato a Berlino «Balla coi lupi», idillico, manicheo, ma grandioso e affascinante Costner, l'uomo che volle farsi Sioux Jarman narra la Passione di Cristo in «The Garden» BERLINO DAL NOSTRO INVIATO Kevin Costner non c'è e Jane Russell, settantenne energica arrivata tra fotografi e fans tumultuanti alla maniera del vec; chio divismo, gli fa indirettamente la lezione: «Bisogna stare attenti a non aver paura della paura». Lei non teme nulla, come le grandi brune imperiose che ha interpretato in tanti western, polizieschi o commedie. E' soltanto sbalordita dal fatto che il FilmFest le renda omaggio, che molti festival l'abbiano negli ultimi anni invitata e onorata: «Prima, i miei film nessuno li prendeva sul serio. Adesso li trattano come trofei preziosi». Il suo personale giudizio è, le sembra, più equilibrato: «Non ho contribuito granché alla storia del cinema, però sono piaciuta alla gente». Prima opera americana in concorso a un festival che gioca ad anticipare gli Oscar, «Dances with Wolves» (Balla coi lupi) è la storia fine Ottocento d'un uomo che trova la civiltà tra i «selvaggi», il racconto elegiaco d'un eroe all'avventurosa scoperta degli indiani Sioux nelle sconfinate praterie del Dakota: film idillico, manicheo, irrealistico, ma grandioso e affascinante. Kevin Costner l'ha prodotto, l'ha interpretato, l'ha diretto debuttando nella regia con grande sicurezza e capacità, ha fatto scrivere al suo amico Michael Blake prima il romanzo (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer) poi la sceneggiatura, ha affidato piccole parti (in una scena di massacro) a sua moglie e ai loro tre bambini. Non potrebbe essere un film più personale: l'attore-regista è in parte d'origine indiana Cherokee (e irlandese, e tedesca); ha sempre amato il cinema epico, i film di John Ford e di David Lean visti da bambino; è politicamente un «liberal»; era professionalmente in cerca d'un personaggio alla Gary Cooper. La vicenda è tutt'altro che nuova, per il cinema. Un giovane ufficiale, valoroso combattente dell'Unione nella guerra civile americana, potendo scegliere una nuova destinazione chiede d'andare alla frontiera «per vederla prima che scompaia». Viaggia attraverso le grandi pianure deserte e bellissimi paesaggi, sotto l'infinito cielo notturno e nel sole; arriva all'avamposto cui è stato assegnato, una baracca vuota, circondata da segni e relitti di massacri. Vi abita in assoluta solitudine, con l'unica compagnia del suo cavallo, del suo fucile e d'un lupo che lo visita a distanza. Poi cominciano, molto lentamente, i contatti con i Sioux. Riuscito con cautela e difficoltà a farsi accettare da loro, l'ufficiale scopre nella tribù un alto livello di civiltà: «Non avevo mai conosciuto gente così cordiale, attaccata alla famiglia e disponibile verso i propri simili. La prima parola che mi fanno venire in mente è: armonia», scrive nel suo diario. La cultura pellerossa lo conquista e lo consola, dopo il carnaio della guerra: riceve un nome indiano, quel Balla coi Lupi che dà il titolo al film; entra a far parte della tribù; si forma una famiglia sposando una bianca rapita da bambina e cresciuta tra gli indiani (l'attrice è Mary McDonnell). Felicità e pace vengono brutalmente spezzate dall'arrivo d'un distaccamento dell'esercito americano: l'ufficiale, che è vestito da indiano, viene massacrato di botte, incatenato, considerato un traditore, destinato alla fucilazione; la sua tribù che lo libera dalla prigionia verrà distrutta, e tredici anni dopo i Sioux si sottometteranno agli Stati Uniti. Naturale grandiosità del paesaggio e del cielo (l'ammirevole direzione di fotografia è di Deam Semler), ritmo calmo lento e profondo della narrazione, classicismo dello stile, buone interpretazioni: bello da vedere, «Balla coi lupi» sarebbe facile da amare se il copione avesse resistito alla tentazione degli stereotipi. Ogni Sioux (o quasi) è una carissima persona, non soltanto civile, pacifico, generoso, dolce e saggio, ma anche fine filosofo e insieme sapiente pragmatico; ogni militare americano (salvo il protagonista) è un barbaro selvaggio, delinquente, violento, irragionevole e distruttivo, posseduto dallo spirito di rapina, dall'istinto di sopraffazione e dal gusto di uccidere. Anche per il «liberal» più amico degli indiani, è troppo. Sarà troppo mangiare i propri genitali ormai inceneriti tanti anni dopo la castrazione, mandarli giù con un po' d'acqua e poi morirne? Finisce così «Da Taijian Li Lianying» (Li Lianying, l'eunuco imperiale), prodotto dalla Cina e da Hong Kong, diretto da Tian Zhuang-Zhuang, biografia fine Ottocento-inizio secolo d'uno degli ultimi eunuchi della Corte di Pechino, politicante e devoto: un film non ben fatto ma curioso, in qualche momento persino commovente. Sono toccanti alcuni brevi film etichettati «Lesbian and Gay»: in buona parte dedicati alla devastazione dell'Aids, che è pure il tema del nuovo film di Derek Jarman, «The Garden» (Il giardino), presentato al Forum del cinema giovane. Come «Il sangue d'un poeta» di Jean Cocteau, è un film che elegge a protagonista l'artista, in cui immagini, personaggi, simboli ed eventi esprimono il sentimento dell'autore e la sua visione tutta personale del mondo reale. Derek Jarman, come si sa, è sieropositivo, da poco ha passato sei settimane in ospedale per curarsi, da tre anni ha scelto d'abitare solo in una piccola casa sul mare circondata da un giardino a Dungeness, in Inghilterra, accanto agli edifici d'una centrale nucleare. E' il luogo dove si svolge gran parte del film destrutturato, onirico e allegorico, che, anche in polemica con la posizione assunta sull'Aids dalla Chiesa cattolica, esplora la Passione di Cristo accostandola alla tragedia di quei malati temuti, isolati, perseguitati. Cristo è a volte sostituito, nelle tappe della Via Crucis, da una coppia di ragazzi amanti, portatori della croce, frustati e torturati (anche da un aguzzino vestito da Papà Natale); è lo stesso Jarman, protagonista del film, a dare a Gesù il bacio di Giuda; il giardino domestico del regista diventa l'Eden,o l'orto di Getsemani. Una poesia accompagna le immagini: «Cammino in questo giardino/ Stringendo le mani degli amici morti/ La vecchiaia arriva presto per la mia gelata generazione/ Freddo, freddo, freddo/ Sono morti così silenziosamente...». Lietta Tornabuoni Jane Russell, festeggiatissima al FilmFest, ha rimproverato Kevin Costner (nella foto grande in una scena di «Balla coi lupi») di aver disertato la rassegna per paura. A sinistra il regista Derek Jarman, che ha proposto «The Garden» al Forum del cinema giovane

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