Così la guerra marchiò Max Ernst, il fabbro dei sogni di Giulia Ajmone Marsan
Così la guerra marchiò Max Ernst, il fabbro dei sogni A cent'anni dalla nascita, si è aperta a Londra una mostra di 190 opere, che si trasferirà poi in Germania e Francia Così la guerra marchiò Max Ernst, il fabbro dei sogni La «metodica follia» di un ribelle, tra i fondatori della pittura surrealista HLONDRA AI troppo talento e dovresti usarne meno», consigliò August Macke la Max Ernst (nato cent'anni fa e morto nel 1976). L'illustre fabbro di sogni non gli ubbidì, come prova la vasta retrospettiva alla Tate Gallery fino al 21 aprile, che sarà poi in mostra in Germania e Francia. L'esposizione di oltre 190 opere è allestita in nove sale in ordine grosso modo cronologico, lungo un serpeggiante, ma chiaro, percorso. L'opera di Ernst - come spiega Werner Spies, il suo principale studioso - ò caratterizzata da eccezionale varietà, da nette cesure; queste, nelle parole dell'artista, riflettono le oscillazioni tra «aggressività ed esaltazione» provate nella ricerca di «una pittura al di là della pittura». Componendo un quadro e negandolo allo stesso tempo, Ernst considerava se stesso «l'utero maschile di una metodica follia». Fin da giovane Ernst era stato un ribelle. Scrisse infatti: «Dovere, dovere e ancora dovere». La parola iniziò a sembrargli sospetta fin dalla più giovane età e cominciò a odiarla. Le parole del catechismo, invece, «concupiscenza degli occhi, desideri della carne e vanagloria della vita», gli sembravano «piuttosto belle». Sopravvisse ai rigori dell'educazione guglielmina e nel 1912, sfidando la disapprovazione paterna, deci¬ se di diventare pittore: scettico nei confronti delle avanguardie, fu profondamente impressionato dai suoi studi di psichiatria e psicoanalisisi. A tali esperienze si aggiunse il trauma della prima guerra mondiale: la nausea e l'orrore accumulati furono tramutati in creatività dal contatto nel 1916 con il movimento Dada e dal confronto nel 1919 con De Chirico. La prima sala contiene opere di questo periodo, tra cui Fruit d'une longue expérience (1919), una composizione di oggetti lignei, ritoccati con poche pennellate, e Von minimax dada max selbst konstruirtes maschinschen (1919/20), un montaggio di forme geometrico e elementi meccanici a tinte pastello. E' difficile immaginare ora in che atmosfera fossero state esposte per la prima volta. Nel 1920 il Museo delle Arti e Mestieri di Colonia rifiutò di mettere in mostra i lavori di Ernst e di Johannes Baargeld e Jean Arp; questi allora le esposero nel cortile interno di una birreria, al quale si accedeva attraverso i gabinetti maschili; all'ingresso, una ragazzina vestita da prima comunione recitava versi osceni; al centro del cortile era stato innalzato un oggetto di legno di Ernst con accanto una scure, con cui il pubblico era invitato a distruggerlo; alle pareti erano esposte opere iconoclastiche: il pubblico le sfregiò ripetuta monte e querelò gli artisti finché la polizia non fece chiudere la mostra. Il padre di Ernst gli scrisse: «Ti maledico; hai disonorato il nostro nome... ». Le sue opere, in particolare i suoi collage, invece, entusiasmarono i Dadaisti parigini, soprattutto Paul Eluard e André Bréton: Ernst si installò così a Parigi, dove diede un contributo fondamentale alla definizio¬ ne della pittura surrealista. Il Surrealismo - nella sua propria definizione - «insiste sul ruolo puramente passivo dell'"autore"»; dipingere consiste nell'escogitare «procedure liberatrici» per far affiorare dall'inconscio «puri e inadulterati oggetti trovati», così da infrangere la barriera tra mondo esteriore e interiore, tra pensiero e azione. Di questi anni sono alenili dei suoi quadri più importanti tra cui Célèbes (1921 ), Oedipus Rex (1922), Pietà ou revolution la nuit (1923), mostrati nelle sale successive. Di questi anni sono anche la messa punto delle tecniche del «frottage» e «grattage» e i «romanzi» di immagini, a cui sono dedicati due sale. Gli Anni 30 furono degli anni più travagliati, segnati dalla condanna nazista della sua arte, dalla rottura con Bréton, dall'internamento e dall'emigrazione dopo lo scoppio della guerra. Adottò la decalcomania e i suoi quadri deventarono più cupi e barocchi - ecco la serie di apocalittiche «città» e minacciose foreste, quali La joie de vivre (1936). Giunto negli Stati Uniti, non solo continuò a dipingere, ma iniziò anche a scolpire: la penultima sala avvicina con bell'effetto bronzi quali Le roijouant avec la reine (1944) a tele quali Vox Angelica (1943), su cui per la prima volta fece gocciolare della tinta. Al dopoguerra, trascorso per 10 più in Francia è dedicata l'ultima sala al centro di cui si erge 11 bronzo Le genie de la Bastille (1960); attorno a quest'asse ruotano quadri cosmici, quali Le monde des naifs (1965). Benché Ernst dimostrasse un crescente interesse per forma e colore, restò fedele allo spirito di rivolta, affermando di «rifiutare assolutamente di vivere come un "tachiste"». Giulia Ajmone Marsan Max Ernst: «Colazione sull'erba» ( 1935-36)
Persone citate: André Bréton, August Macke, De Chirico, Jean Arp, Johannes Baargeld, Max Ernst, Paul Eluard, Werner Spies
Luoghi citati: Francia, Germania, Londra, Parigi, Stati Uniti
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