CARNE' del Paradiso

CARNE' del ParadisoMentre al Festival di Berlino il cinema mondiale svela il suo nuovo volto, Parigi ritrova un maestro CARNE' del Paradiso La rivincita, dopo quindici anni di oblio RPARIGI ITORNA Marcel Carnè, il regista di Les enfants du paradis, dei film di Jean Gabin, della Parigi proletaria degli Anni 30 e del Fronte Popolare. Dopo un oblio durato un quindicennio - e una campagna addirittura denigratoria per lui e la sua opera, orchestrata più di trent'anni fa dai «giovani turchi» della critica francese capeggiati da Francois Truffaut - il vecchio regista, che compirà in agosto 82 anni, attira di nuovo l'attenzione della stampa e del pubblico. Escono in questi giorni sugli schermi parigini due tra i suoi film meno noti e apprezzati, La Marie duport e Juliette ou la clefdes songes (1950 e 1951), e il settimanale L'Express gli dedica un articolo in cui si sottolinea il passaggio dal Carnè «onirico» al Carnè «realista», quasi a sottolineare la complessità e i multiformi aspetti d'un cinema che si credeva circoscritto entro i confini di quello che venne allora definito il «realismo poetico». Ed è sempre di questi giorni l'uscita in libreria di una nuova traduzione italiana della sua autobiografia La vie à belles dents, già pubblicata nel 1982 ed ora rivista e aggiornata a cura di Claude Guiguet (Marcel Carnè, Io e il cinema, ed. Lucarini). Insomma, in un momento in cui al Festival di Berlino il cinema mondiale si presenta nei modi e nelle forme di uno spettacolo aperto a ogni suggestione della contemporaneità e pare muoversi lungo una strada molto lontana dal vecchio realismo, questo «ritorno» a Carnè può assumere almeno due significati. Da un lato la riscoperta di un autore che forse ha ancora qualcosa da dire oggi, pur essendo legato a un'idea di cinema molto «datata»; dall'altro la ricerca di un'eventuale «presenza» della sua influenza di stile e di contenuti in autori che paiono del tutto estranei alla sua poetica. E' come se Marcel Carnè potesse ancora costituire un punto di riferimento - positivo o negativo poco importa - nell'orizzonte frastagliato e spesso indefinito del cinema contemporaneo. Come se la sua opera, o almeno alcuni dei suoi film più belli e famosi, riuscissero ancora a suscitare quegli entusiasmi, quelle passioni, che ne caratterizzarono l'uscita sugli schermi. Forse la ripresa di due film minori, appunto La Marie duport e Juliette ou la clefdes songes, consentirà di riaprire il discorso su Carnè: sarebbe un discorso certamente stimolante e ricco probabilmente di qualche sorpresa. Si è detto che ha pesato negativamente su di lui, in questi ultimi trent'anni, il giudizio che i giovani della Nouvelle vague avevano riservato ai suoi film, non solo quelli realizzati negli Anni Cinquanta ma anche quelli precedenti,, che lo avevano reso famoso prima della guerra. Un giudizio che ancora oggi è condiviso da una parte della critica, o meglio, un giudizio che ha prodotto un oblio della sua opera complessiva, relegata da molti ai margini della storia del cinema. Non v'è dubbio che i suoi ultimi film, realizzati poco prima e poco dopo che il fenomeno Nouvelle vague esplodesse al Festival di Cannes del 1959, risentono di una sorta di stanchezza creativa, d'una incertezza di fondo che è stata attribuita a cause diverse - dalla interruzione della feconda collaborazione con il poeta e sceneggiatore Jacques Prèvert al mutato clima sociale e culturale che egli non riuscì più a cogliere nella sua complessità. E' fin troppo facile riscontrare in opere come Teresa Raquin (1953) o Varia di Parigi (1954), Peccatori in blue-jeans (1958) o Gioventù nuda (1960), Dietro la facciata (1962) o Tre stanze a Manhattan ( 1965), tanto un cor¬ gica» a retto mestiere quanto uno stile fiacco: la rappresentazione d'una realtà legata a vecchi schemi, priva di un autentico rapporto con l'attualità che ne sottolinei i risvolti drammatici. Ma il Carnè più vero e personale non è il regista di questi film, nonostante egli nella citata sua polemi> ca autobiografia - non rinunci a difendere a spada tratta le sue ultime scelte, a negare ogni decadenza o compromesso. Il Carnè più vero e personale è e rimane l'autore del Porto delle nébbie e di Alba tragica, il narratore e il sottile illustratore della Francia degli Anni Trenta, il rappresentante più noto del cosiddetto «realismo poetico» e del «fantastico sociale». Ma è anche l'autore di quel capolavoro che è Les enfants du paradis, girato negli anni di guerra, quando la Francia era sotto l'occupazione tedesca e sotto il governo collaborazionista di Vichy (e per questo egli ebbe delle noie a guerra finita). Perché in quei film, e in altri di quel medesimo tempo o poco dopo - si pensi a Hotel du Nord, a Les visiteurs du soir, a Lesportes de la nuit (ed anche ai citati La Marie du Port e Juliette) -, Carnè riuscì a esprimere quello che era stato, sin dagli inizi, il suo modello di cinema, la sua visione della realtà e della sua trasposizione nei modi e nelle forme dello spettacolo cinematografico. Un modello di cinema che egli nato in un quartiere popolare di Parigi - aveva appreso frequentando i migliori film degli Anni Venti, soprattutto quelli di Lang, di Murnau, di Chaplin, divenendo poi critico cinematografico e assistente di Jacques Feyder, il regista di Pensione Mimosa e della Kermesse eroica. Era un cinema, il suo, che si basava sulla rigorosa struttura letteraria della sceneggiatura, sulla cura attentissima ai particolari ambientali, sulla vigile e controllata condotta degli attori, che diventavano, sotto la sua guida, gli interpreti ideali, unici, dei suoi personaggi (e di quelli di Prèvert) in perenne conflitto con la società. E furono proprio questi personaggi, in fondo romantici e idealisti, pervasi da un pessimismo esistenziale che li rendeva estremamente moderni, a fare dei suoi film i simboli stessi della società europea fra le due guerre, stretta fra i fascismi nazionali (in Italia e in Germania, in Portogallo e in Spagna) e la speranza di un riscatto democratico e libertario, ma avviata verso la grande catastrofe imminente. Questo simbolismo implicito, colto già allora dalla critica e dal pubblico, fu anche il prodotto di Cone il vseduche quella stretta collaborazione fra Marcel Carnè e Jacques Prèvert che si protrasse per un decennio con risultati certamente esemplari. Come se lo scrittore e poeta avesse trovato nel regista, estremamente attento e diligente, ma anche creativo e a volte geniale, colui che riusciMa a visualizzare e a rendere drammaticamente veritieri i personaggi e le storie che egli andava scrivendo. Si pensi soltanto al Jean Gabin del Porto delle nebbie e di Alba tragica, al disertore Jean e al¬ Jean-Louis Barrault in una scena di «Les enfants du paradis», presentato il 9 marzo 1945 due mesi dopo la fine del conflitto. Nella fotografia piccola un primo piano di Marcel Carnè. Il regista francese, che compirà in agosto 82 anni, è rilanciato dalla ripresa di due suoi film a Parigi e dalla nuova edizione italiana dell'autobiografia l'operaio Frangois, due personaggi déracinés, che si aggirano in un ambiente chiuso, da cui non si può uscire se non attraverso la morte. E si pensi a Michèle Morgan (l'incantevole Nelly), a Michel Simon (il vizioso Zabel), a Pierre Brasseur (il perfido Lucien), ad Arletty (la mondana Clara), a Jules Berry (il losco Valentin): figure al tempo stesso periferiche e centrali, che ruotano attorno a Gabin come pedine di un gioco che ha le sue regole: una partita che si sa già perdente in partenza, vinta dal destino inesorabile. Se oggi questi film possono sembrare «letterari», legati a un'idea di cinema non riesce a nascondere l'artificio, ma non ha il coraggio di mostrarlo, essi non hanno perso tuttavia il loro carattere emblematico, il loro potere di suggestione e di coinvolgimento, forse più culturali che emotivi. Soprattutto ci danno un'immagine della Francia (e più in generale dell'Europa) degli Anni Trenta, che ancora ci tocca e ci turba. Sono le forme e i simboli di una società e di una cultura che la guerra spazzò via. Poi venne Les enfants du paradis, quando la guerra stava appunto distruggendo quel recente passato. E fu una sorta di canto del cigno, di testamento artistico e morale affidato ai posteri. Carnè e Prèvert si rifugiarono nel passato, la Parigi di Metà Ottocento fra mondo del teatro e malavita, feste popolari e crisi borghesi, per darci la loro interpretazione del presente, senza falsi pudori o reticenze. Un'interpretazione che nasceva da quel pessimismo esistenziale che già aveva sorretto i film precedenti. La storia romantica e affascinante del mimo Baptiste Debureau (interpretato magistralmente da Jean-Louis Barrault) e della bellissima Garance (alla quale l'attrice Arletty seppe dare una «presenza» schermica ineffabile) non poteva che concludersi con la separazione: la speranza nor albergava più nell'Europa dilaniata dalla guerra. Un'epoca era definitivamente tramontata. Il 9 marzo del 1945 Les enfants du paradis fu presentato a Parigi, al Palais du Chaillot, in una serata di gala, due mesi dopo la guerra era finita. Anche Marcel Carnè, con quel film straordinario, aveva in certo senso posto fine alla sua carriera di grande regista. Gianni Rondolino Il regista di «Alba tragica» vilipeso da Truffaut compie 82 anni e ritorna protagonista > Con i testi di Prèvert e il volto di Jean Gabin sedusse anche autori che lo rinnegarono tival di Berlino il cinema mondiale svela il suo nuovo volto, Parigi ritrova uCARNE' del Paradiso