Trema la città che lavora

Trema la città che lavora Guerra del Golfo: sondaggio tra artigiani e imprenditori Trema la città che lavora Meno affari, tanta incertezza La Torino che lavora trema per l'«effetto Golfo». Colti di sorpresa, imprenditori, artigiani, professionisti, commercianti e agricoltori temono una frenata lunga, una coda d'inflazione e un mercato in discesa libera. Vivono nell'incertezza e sperano. Qualcuno incrocia le dita, altri ma sono pochi - stanno già studiando contromisure. Lo dicono i risultati piemontesi di un sondaggio dell'Istituto italiano di ricerca demoscopica che ha dragato ansie e attese in tutta la penisola. Nel sommerso subalpino duemilaseicentonovanta interviste strappano il velo sui dubbi che tutti provano, insieme all'orrore per la guerra, alzando, da ventiquattro mattine, le saracinesche dei negozi, aprendo le porte degli uffici, mettendo in moto auto e furgoncini, sfogliando i giornali. Il telefono è squillato nelle case di 507 industriali, 309 dirigenti di piccole fabbriche, 1010 artigiani, 350 contadini, 15 operatori di borsa, 82 funzionari di banca, 115 manager, 302 assicuratori: un campione sicuramente interessante per capire che cosa pensano i direttori commerciali che ogni mattina debbono comunque scegliere, nonostante nubi, un futuro pieno di fumo e qualche brivido. In sessantotto su cento giurano che l'Italia ha fatto bene a parteciparare all'operazione, venti dicono che non avrebbe mai dovuto cominciare, dieci sono indifferenti, gli altri non rispondono. Ma tutti sono obbligati a confrontarsi con uno scenario d'azione mutato. Dopo la notte dei primi spari, qualcosa è cambiato dovunque: nei rapporti, nelle trattative, nei contratti, negli affari. Tra le carte degli uffici, nei programmi per i prossimi anni s'è inserita, di forza, una incognita che nessuno, per ora, sa «leggere». Il «cuore» della città che produce denuncia un brusco rallentamento dei battiti: situazione di stallo secondo il 45 per cento, addirittura aumento del fatturato per il 18 per cento, ma il 36 per cento non ha dubbi a denunciare un considerevole calo del fatturato. E' solo l'inizio? Chissà. Non c'è rassegnazione, ma neppure grandi speranze. Il tam-tam dell'economia non trasmette belle notizie. Secondo il 58,2 per cento degli intervistati il primo riflesso del conflitto sarà l'aumento dell'inflazione; molti, il 33%, temono la stagnazione e alcuni, l'8,3%, la recessione. Che fare? Si va a tentoni. Infatti soltanto pochi (meno del venti per cento) avevano previsto la reale possibilità di uno scontro di grandi dimensioni in Iraq, pochissimi hanno una struttura elastica capace di resistere agli scossoni attuali, altri si stanno scervellando per trovare nuove strategie, mercati diversi, produzioni e interventi alternativi che permettano loro di superare le sabbie mobili. Ma la maggior parte (il 65 per cento), vive ed opera nell'incertezza e si augura che l'incubo passi presto. Niente illusioni, naturalmen¬ te, non è nello stile né di Torino, né del Piemonte. E infatti settantatré su cento pensano ad una guerra che non finirà prima di sei mesi o un anno, dieci confidano ancora in una soluzione rapida: un colpo di scena, un improvviso cessate il fuoco o una resa di Saddam Hussein. Il discorso è comunque diverso in altre zone dell'Italia: sono d'accordo con Torino, secondo i risultati dell'indagine coordinata da Alessandro Felloni, soltanto Basilicata, Veneto e alcune regioni del Centro. In Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio vince il partito del «non so». In Lombardia, invece, c'è un sostanziale equilibrio anche tra i «favorevoli» e i «contrari» alla guerra nel Golfo. Ma il mondo economico piemontese disegna un panorama grigio per tutti. Senza distinzioni. Il «ralenti» delle commesse nelle grandi aziende ricade a pioggia su tutti gli altri settori, traballano le piccole fabbriche, riducono le spese quasi tutte le aziende e naturalmente la «stretta» rischia di menar botte da orbi agli anelli più debob della catena: agricoltori, artigiani, commercianti che non vendono più i loro prodotti come prima del 17 gennaio. Dietro l'angolo, dopo la guerra, cosa c'è? Oltre il quarantasei per cento degli imprenditori confida, più o meno segretamente, in una robusta ripresa, ma sono di più quelli che non si sbilanciano e ricordano le contraddizioni dei «dopoguerra». Un raggio di luce, nell'ultima pagina, di un'inchiesta che ha i toni grigi e cupi della crisi: quasi tutti sono d'accordo sul ruolo che il Papa sta svolgendo per tentare di frenare l'escalation di violenza. Basterà per superare le difficoltà d'oggi? Paolo Negro Gian Mario Ricciardi Un momento di una delle numerose manifestazioni che si sono svolte in città dopo lo scoppio della guerra

Persone citate: Alessandro Felloni, Calabria, Gian Mario Ricciardi, Paolo Negro Gian, Saddam Hussein